Alfonso Berardinelli, Il sole 24 ore 8/3/2009, 8 marzo 2009
CARO ASOR, CHE STORIA E’ QUESTA?
Erano molti anni, forse venti, che non leggevo una tale quantità di pagine di Alberto Asor Rosa: ma questi tre volumi della sua Storia europea della letteratura italiana hanno risvegliato in me una certa curiosità. Se questa è «l’opera di una vita» e se la letteratura italiana ci riguarda da vicino, ho pensato subito all’opportunità, al dovere di una recensione. Dopo aver letto più o meno un quarto dell’insieme, passando da Dante a Guicciardini, da Sarpi a Verga, da Boccaccio al Novecento, devo dire che sono più perplesso che deluso.
Non ho mai avuto simpatia per l’autore. In primo luogo a causa delle sue proterve e nebulose idee politiche giovanili (fra Tronti, Cacciari e Negri), consistenti in una specie di idolatria teoricista della classe operaia, in quanto ontologicamente rivoluzionaria perché anticulturale e «selvaggiamente» antisociale. La notorietà di Asor Rosa è dovuta tuttora, in sostanza, al rumore suscitato dalle sue posizioni oltranziste e nichiliste degli anni Sessanta: e al fatto di aver accusato Fortini di essere un rivoluzionario incoerente perché scriveva poesie. Ma la mia perenne perplessità nasce soprattutto dai misteriosi, "gesuitici", strumentali rapporti che questo singolare intellettuale-politico intrattiene con la letteratura, ambito e oggetto del suo impegno professionale. Nessuna pagina di Asor Rosa, da Scrittori e popolo in poi, mi ha mai convinto di trovarmi in presenza di un critico letterario, né di un lettore percettivo e competente, o di un teorico capace di vedere i fenomeni letterari in un’ottica originale.
Non credo di esser prevenuto: ogni volta che si entra nel vivo dell’analisi di un testo, del ritratto di uno scrittore o di una valutazione letteraria conclusiva, il linguaggio critico di Asor Rosa appare nello stesso tempo macchinoso e incerto. Il passo tardigrado della sua prosa sembra sempre annunciare una ricognizione ponderata e approfondita delle opere, degli autori, dei contesti storici. Ma in definitiva vengono offerte al lettore delle formule scolastiche, a volte goffamente enfatiche. Questi difetti si concentrano proprio lì dove sarebbe stato meglio non trovarli: nelle pagine di Presentazione e di Epilogo. La Presentazione si apre con questo annuncio: «Protagonisti privilegiati di questa "storia della letteratura" sono gli Autori e le Opere. Questa scelta non è avvenuta in maniera occasionale: essa rappresenta il frutto di una precisa persuasione metodica, maturata poco a poco in lunghi anni di esperienza.
La domanda, cui la soluzione proposta intende rispondere, è: di che cosa è "fatta" una letteratura? Una letteratura è fatta fondamentalmente di Autori e Opere, e la sua "storia" non può che tentare di rendere conto di questo» (pag. IX). La domanda è ovvia e ovvia la risposta. Inutilmente bombastici sono qui e altrove il fraseggio, il ragionamento, le maiuscole, le virgolette, i corsivi.
Asor Rosa insiste poi sulla cosa più discutibile e meno motivata del suo titolo: Storia europea della letteratura italiana.
Come potrà constatare ogni lettore, in queste duemila pagine l’Europa non è più presente che in qualunque altro manuale letterario. E tuttavia proprio di questo aggettivo «europea», puramente pubblicitario, l’autore fa una gran questione di assoluta originalità: «"Europea" significa che in quest’opera le vicende letterarie italiane sono state inserite – il più sistematicamente possibile – in un contesto europeo. Tutto ciò è ovvio, naturalmente: in pratica, però, non s’è fatto quasi mai». Si passa infine all’altra novità annunciata come incomparabile: il «tentativo di ridefinire, attraverso le vicende letterarie del nostro popolo, una certa nozione dell’identità italiana, messa a confronto con altre identità europee» (pag. XI). Questo confronto non viene mai approfondito e tutto quello che si dice della nostra identità è che «fonde insieme unità e diversità». Altra cosa ovvia. Ma Asor Rosa la sviluppa, la ribadisce, la gonfia: «Lombardi, ma italiani. Siciliani, ma italiani.
Veneti, ma italiani. Romani, ma italiani. E magari, da questo momento in poi, europei, ma italiani». (pag. XI). Dove si vede che Asor Rosa, scoprendo l’Italia, ignora l’Europa, dove ci sono catalani, renani, andalusi, scozzesi, prussiani, gallesi, bavaresi, bretoni eccetera. Non meno sorprendente della Presentazione è l’Epilogo, nel quale si usa l’ultimo verso del l’«Inferno» come puntello retorico per una stralunata sortita moralistica: «E poi, per concludere davvero, arriva il verso finale della cantica, questo fulminante verso carico di infiniti sensi, il più bel verso che sia mai uscito dalla penna di un autore che abbia mai usato questa nostra lingua: e quindi uscimmo a riveder le stelle. Capite? "E quindi": di lì passando di lì; perché la sorte non sempre ci consente di passare dove vorremmo. Occorre adattarsi alle circostanze, sopportare le sofferenze» (volume III, pag. 615). Lo stile della ridondanza e della dilatazione caratterizza tutti e tre i volumi. Basta fare una prova. Se dopo aver letto un capitolo di Asor Rosa si leggono sullo stesso argomento altre storie e antologie (da Sapegno a Contini, da Ferroni a Mengaldo, da Luperini-Cataldi a Casadei-Santagata) si è costretti ad ammirare, come mai prima, la loro sobrietà, concisione e precisione. Mentre in questi autori i risultati superano le ambizioni, in Asor Rosa ci sono più ambizioni che risultati.
Da circa quarant’anni Asor Rosa scrive, organizza, riscrive, ripubblica storie della letteratura italiana. Ossessionato dal modello De Sanctis, sembra non aver capito che la sua forza critica nasceva da una vocazione pedagogica e dalla conoscenza profonda della cultura a lui contemporanea. De Sanctis aveva (e amava) Foscolo, Manzoni, Mazzini, Leopardi, Hegel, Byron. In lui letteratura e politica tendevano a coincidere, facevano parte di un’unica storia.
Viceversa Asor Rosa ha avuto una formazione disperatamente politica: il suo marxismo estremistico lo ha abituato a guardare dall’alto e con un certo disprezzo gli scrittori e gli intellettuali: Pasolini e Fortini, Gobetti e Gramsci, «Il Politecnico» e «Il Menabò», la Scuola di Francoforte, la sociologia francese, il Gruppo 47, la sinistra americana. Ha tenuto in scarsa considerazione le discussioni sulla critica letteraria, e si vede. Si è votato tardivamente al l’ammirazione per Italo Calvino, facendone (come troppi) il proprio idolo. I primi due volumi di questa Storia, dalle origini a Nievo, possono essere letti o non letti, dicono più o meno ciò che ogni lettore colto sapeva già. Ma è il terzo e ultimo volume quello che più rivela le insufficienze dell’autore.
Non essendo propriamente né un critico militante né uno studioso, ma un organizzatore editoriale con ambizioni politiche, Asor Rosa sembra aver letto poco del Novecento. Le sue pagine su Michelstaedter, autore da lui prediletto, sorprendono più per la loro contraddittorietà che per il loro calore.
Quando scrive che Michelstaedter esorta «a possedere dentro piuttosto che conquistare fuori», nonostante l’uso dei corsivi Asor Rosa non si accorge che approvando Michelstaedter condanna se stesso, in quanto gestore e amministratore dello spazio letterario. La visione che Asor Rosa ha dell’ultimo mezzo secolo e dell’intero Novecento è lacunosa e squilibrata. Faccio qualche esempio. Non si parla della saggistica di Roberto Longhi, Mario Praz, Giacomo Debenedetti, Nicola Chiaromonte, Cases, La Capria, Garboli, Piergiorgio Bellocchio, Carlo Ginzburg, Roberto Calasso. Della qualità letteraria di Gramsci e di Gobetti non si dice nulla. Di Ignazio Silone manca perfino il nome. Il Gattopardo viene nuovamente stroncato in una pagina. Elsa Morante ha meno di due pagine, come Melania Mazzucco. Diciassette righe a Zanzotto, sedici a Volponi, sette a Giudici e a Penna, ventidue a De Carlo, venticinque a Cesare Vivani, quaranta a Valerio Magrelli.
In tutto questo c’è poca logica e ancora meno giudizio. Ma l’opera di Asor Rosa meriterebbe una recensione ancora più ampia e argomentata di questa. Non so se a suo vantaggio o a suo danno.