13 marzo 2009
GUJA VISIGALLI PER PANORAMA 19 MARZO 2009
Vi sembro un pezzo di ghiaccio? No, questa volta ci metterà un po’ di zucchero in più. Alla vigilia del suo nuovo programma su Raidue, «L’era glaciale», Daria Bignardi parla dei personaggi che le hanno detto no (Di Pietro), di quelli che hanno accettato (D’Alema) e di quelli che sogna (Obama). Intanto, con Panorama fa il punto della sua carriera in tv: «Tutto merito di Lucia Annunziata. Mi disse: offriti, anche gratis».
«Io lavoro in tv. E guadagno più di mio marito». Daria Bignardi sorride: «Lui fa radio e collaborazioni. Problemi per questo? Ma Luca è un Sofri, cioè una persona speciale: per loro i soldi non sono importanti. Sono superiori, e lo dico con amore, a queste vili cose di noi mortali. E sarà anacronistico o poco credibile, ma il mio denaro è il suo». Alla vigilia del suo nuovo programma tv, L’era glaciale, su Raidue dal 20 marzo alle 23.40 per 12 puntate, Bignardi fa un bilancio di oltre 25 anni di professione.
Ha avuto a 40 anni il primo contratto importante con il «Grande fratello». Il denaro misura il successo?
Vengo da una famiglia piccolo-borghese, senza grandi mezzi. Ho dovuto occuparmi di me stessa da quando avevo 20 anni e ne sono entusiasta. Non ho mai avuto la sensazione che mi fosse cambiata la vita, non ho compensi da star tv. Ho comprato casa a Milano due anni fa dopo 25 anni di lavoro e sto pagando il mutuo. Questo è il mio successo, frutto di un lungo percorso.
Dopo «Tempi moderni» e «Le invasioni barbariche» anche stavolta un titolo che rende omaggio al cinema.
Abbiamo passato settimane a scartare titoli, poi magicamente a tre di noi autori si è accesa la stessa idea. Non avevo neppure visto il cartone animato, ma era un titolo che mi diceva tante cose del nostro mondo, anche se in maniera più drammatizzata.
In che senso?
Lo trovo molto legato alla contemporaneità, verso cui sono sempre curiosa: nella glaciazione c’è anche il disgelo, quindi movimento e cambiamento. Lo si capisce anche dalla sigla firmata da Gipi, il disegnatore Gian Alfonso Pacinotti, uno dei migliori autori europei di graphic novel.
Come sarà questo nuovo programma?
Più corto, un’ora e mezzo invece di tre. E penso a interviste a fisarmonica, non in numero fisso. L’impianto, lo stile e il linguaggio saranno molto simili alle Invasioni, perché è quello che so fare. Diversi i dettagli, la sigla, la scena e soprattutto i filmati che saranno più d’attualità e d’autore.
Chi chiamerà come ospiti?
Non lo so ancora, per decidere aspetto di sentire il clima dei giorni precedenti. Esagero, mi piacerebbero Barack Obama e sua moglie Michelle. So chi non verrà: Antonio Di Pietro, centrale in questo momento politico, mi ha detto un bel no chiaro. Meglio di chi dilaziona all’infinito. Invece ha finalmente accettato Massimo D’Alema.
Non solo politici, però.
Li miscelerò come sempre a scrittori, artisti, personaggi dello spettacolo. E inviterò più sportivi, perché i grandi atleti hanno una storia e una sfida da raccontare. Dopo Marco Materazzi e Gigi Buffon, vorrei José Mourinho e Roberto Mancini, ma anche qualcuno fuori dal calcio, come i rugbisti.
Dalla 7 a Raidue: quali aspettative ha lei e quali la rete?
Alla 7 stavo benissimo e per quattro anni ho fatto un programma che funzionava. Però la Rai è la Rai, mia madre ne sarebbe contenta. Potrò contare su tecnici di prim’ordine, e poi gli archivi, foto e vecchi filmati: mi sembra di essere nel paese dei balocchi. Non so quale sia l’obiettivo della rete, ma temo si aspettino molto.
Che cosa risponde a chi l’accusa di fare sempre lo stesso programma?
Che hanno ragione. Per un certo periodo ho cambiato spesso perché sono sempre attratta dal nuovo. Anni fa, però, qualcuno che se ne intendeva molto, non ricordo se Carlo Freccero o Antonio Ricci, mi disse di imparare dai grandi della tv, come Maurizio Costanzo o Bruno Vespa, capaci di fare per decenni la stessa cosa: devi fermarti su un genere e farlo tuo. Sto ancora cercando di imparare.
In che cosa si differenzia il suo modo di intervistare da quello di Serena Dandini?
Serena ha molta più esperienza di me, anche teatrale, io non saprei fare la spalla a un comico. Ho un approccio più giornalistico e più rigido, non riempio la scena, ho bisogno dei contenuti che ho scritto. Il direttore di Raidue Antonio Marano ha detto che lei ha un modo più romano di fare tv e io più milanese. Anni fa avevamo pensato di lavorare insieme, ma ora è più difficile, perché siamo più caratterizzate.
Ha lavorato con Gad Lerner, Gianni Riotta, Giordano Bruno Guerri. Quanto hanno contato questi incontri?
Moltissimo. Ma fondamentale è stato quello con Lucia Annunziata, conosciuta durante una mia vacanza a Gerusalemme, dove lei era corrispondente di un quotidiano. Mi disse che il futuro del giornalismo era in tv e mi mandò da Lerner a nome suo a offrirmi per fare qualsiasi cosa, anche gratis.
Stefano Eco, Nicola Manzoni, Luca Sofri: i suoi amori sono sempre intellettuali e anche figli di. Snobismo sentimentale?
Può darsi, ma nel senso originale di «sine nobilitate»: sono cresciuta in provincia, a Ferrara, che era il posto più chiuso e lontano del mondo. Certo, subisco il fascino dell’intellettuale, ma è che banalmente mi ci trovo meglio a parlare.
Con il suo primo libro, «Non vi lascerò orfani», ricorda sua madre. Le donne fanno più fatica degli uomini anche oggi?
Temo per mia figlia Emilia che sarà così ancora per 20 o 30 anni. Per quel che mi riguarda è anche un po’ colpa mia: sono perfezionista, complicata, ma anche più lenta di mio marito. Lui ha una facilità di scrittura giornalistica invidiabile. E poi noi donne siamo impegnate su molti fronti, lavoro, figli, casa. Che può essere un vantaggio: siamo più attrezzate a vivere in questo mondo che richiede sempre più flessibilità.
Lei se n’è andata di casa a 20 anni. Allora non era un comportamento comune. Oggi qual è la vera trasgressione?
L’autonomia, la società spinge a proteggere troppo i figli: che bello se ci stupissero diventando indipendenti presto.
Quanto è cambiata negli anni?
Ci pensavo proprio pochi giorni fa, quando mio figlio ha compiuto 12 anni. Secondo me a quell’età si comincia davvero a essere se stessi. Ecco, io allora ero come adesso. Certo, avevo più insicurezze, che però mi hanno spinto a mettercela tutta per raggiungere i miei obiettivi.
Dunque è soddisfatta di sé?
A 20, 30 anni credevo di dover essere diversa e cercavo di avvicinarmi a certi modelli. Adesso, a quasi 50, ho imparato ad accettarmi. Cerco soltanto di essere più dolce, più paziente. Conservo una lettera di mia madre: «Un po’ più di zucchero, con tutti». E se lo scriveva lei che mi conosceva bene.