Sergio Romano, Corriere della sera 13/3/2009, 13 marzo 2009
PIETROBURGO E LA RUSSIA NELLE CRONACHE DI ALGAROTTI
Tra i primi viaggiatori nella Russia settecentesca, figura un italiano, il conte Francesco Algarotti, che fu anche scrittore e diplomatico. Descrisse i suoi viaggi nelle famose «Lettere dalla Russia». Ce ne può fare un ritratto-profilo?
Gennaro Paolo Pisanti
gennaropaolopisanti@ yahoo.it
Caro Pisanti,
Nella lunga storia del declino italiano, fra Seicento e Settecento, le personalità come quella di Francesco Algarotti sono l’altra faccia della medaglia. Il Paese era diventato la periferia mediterranea dell’Europa, un mosaico di Stati decaduti e di principi insignificanti, la triste caricatura di ciò che era stato sino al Cinquecento. Ma aveva ancora intellettuali e artisti geniali che portavano all’estero ciò di cui non potevano servirsi nella loro patria. In questa piccola folla di spiriti brillanti Francesco Algarotti fu tra quelli che ebbero maggiore successo.
Nacque nel 1712 a Venezia da un ricco mercante (diventerà conte a Berlino dove passò parecchi anni alla corte di Federico il Grande), ma fece buoni studi a Roma e soprattutto a Bologna dove dimostrò di avere due vocazioni spesso difficilmente conciliabili. Era matematico e fisico, ma amava la letteratura, componeva versi, scriveva articoli e saggi. Il risultato di questo innesto scientifico-letterario fu uno straordinario best-seller europeo che Algarotti scrisse quando aveva soltanto 21 anni. S’intitola «Il newtonianismo per le Dame» ed è una eccellente volgarizzazione delle teorie di Newton. Tradotto in francese, tedesco e inglese, il libro fece in breve tempo di Algarotti un personaggio europeo. Esiste un pastello del pittore Liotard che lo ritrae di tre quarti mentre fissa sullo spettatore uno sguardo altero e provocante. Ha un viso ovale, un naso aquilino, labbra carnose e ben disegnate, alte sopracciglia, occhi vellutati e il capo elegantemente ricoperto da una parrucca all’inglese, piena di boccoli e di nastri. Non conosciamo i suoi gusti sessuali, ma sappiamo che trascorse molti anni con un artista che lo accompagnò nei suoi viaggi e gli fu accanto fino alla morte.
Uno dei suoi primi viaggi fu a Londra. Vi rimase due anni (dal 1738 al 1739), conquistò la simpatia di molti esponenti della società inglese, e uno di questi, Lord Baltimore, lo invitò a fare parte della delegazione che avrebbe rappresentato la corona britannica al matrimonio della principessa di Mecklemburgo, nipote della zarina Anna, con il principe di Brunswick. Pietroburgo allora aveva soltanto 36 anni. Non era stato ancora completato il palazzo d’Inverno, che Rastrelli aveva cominciato a costruire nel 1732, e non esistevano né il monumento di Falconet a Pietro il Grande (che avrebbe ispirato un famoso poemetto di Puškin), né l’arco dell’Ammiragliato, il Teatro Mariinskij e lo Smolnyj che Rossi e Quarenghi costruiranno tra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento. Ma esisteva ormai la città creata da Pietro con la sua mirabolante sfilata di palazzi sulla Neva e le grandi fabbriche di Domenico Trezzini e degli altri grandi architetti ticinesi che Pietro il Grande aveva invitato in Russia sin dall’agosto del 1703, l’anno della fondazione della città. Algarotti capì subito che Pietroburgo, nelle intenzioni del suo creatore, era «un gran finestrone (...) novellamente aperto nel Norte, per cui la Russia guarda in Europa ». La frase («una finestra sull’Europa») fu usata poi da Puškin nel suo «Cavaliere di bronzo», ma il copyright è di Algarotti.
Il giovane amico italiano di Lord Baltimore si comportò come un inviato speciale. Amava le belle lettere, ma conosceva l’importanza delle cifre. I suoi «Viaggi di Russia» (oggi nuovamente pubblicati da Guanda, a cura di William Spaggiari per i classici italiani della Fondazione Pietro Bembo) sono un reportage politico- economico con uno spiccato interesse per gli aspetti concreti e quantificabili del potere statale: flotta, esercito, traffici commerciali, entrate fiscali, risorse economiche, condizioni geopolitiche, potenza militare. Le informazioni militari sono particolarmente interessanti. Algarotti descrive con grande efficacia la strategia delle truppe russe contro l’Impero Ottomano nelle grandi pianure attraversate dal Dnepr, dal Don e dal Volga, a nord della Crimea e del mare di Azov. Da questa guerra, che terminò nel 1739, i russi trassero vantaggi modesti. Ma Algarotti aveva capito che la Russia si era messa in cammino e che il viaggio l’avrebbe portata molto lontano. Nella sua sesta lettera, l’ultima da Pietroburgo, azzardò una profezia che anticipa, con una importante differenza, quella con cui Tocqueville concluse un secolo dopo il suo saggio sulla «Democrazia in America». «La Spagna e la Russia – scrisse Algarotti – sono forse i due meglio posti Paesi per divenire Signori del mondo».
Mezza profezia era sbagliata. Algarotti non aveva intuito il declino della Spagna e l’ascesa dell’Inghilterra. E non aveva previsto che l’impero britannico e una buona parte dell’impero spagnolo nelle Americhe sarebbero stati assegnati dalla storia a un erede allora sconosciuto: gli Stati Uniti. Ma chi avrebbe potuto prevederlo nel 1739?