Paolo Salom, Corriere della sera 13/3/2009, 13 marzo 2009
l samurai dell’economia mondiale ha perso la sua vocazione. Anche se il suo spirito guerriero non sembra essersene ancora accorto
l samurai dell’economia mondiale ha perso la sua vocazione. Anche se il suo spirito guerriero non sembra essersene ancora accorto. «Possiamo salvare il mondo con le nostre immense riserve valutarie – ha dichiarato Kotaro Tamura, deputato con un passato da responsabile di una banca di investimenti ”. Siamo in una posizione speciale, possiamo farcela». Tamura è il leader di un gruppo di 65 rappresentanti parlamentari del Partito liberaldemocratico che recentemente ha proposto al premier Taro Aso di affrontare il collasso finanziario mondiale come «una enorme opportunità per il Giappone». Poco più tardi, Tokio ha annunciato che il Pil relativo al 2008 era crollato del 12,7 per cento (salvo correggere ieri la cifra a un meno «catastrofico» 12,1 per cento, un dato negativo comunque senza precedenti negli ultimi 35 anni). Quanto alla possibilità che il Giappone si ergesse a baluardo delle traballanti economie del mondo sviluppato, è bastato che il suo (ormai ex) ministro delle Finanze, Shoichi Nakagawa, si presentasse ubriaco al G7 di Roma per dare un’idea della fragilità del Sol Levante: l’economia a picco, un esecutivo che appare ogni giorno sull’orlo del collasso, il primo ministro Taro Aso – l’uomo che doveva dare nuova linfa al partito di governo – considerato un’anatra zoppa a meno di sei mesi dalla nomina. Che accade alla fortezza Giappone? «Be’ – dice al Corriere lo studioso Gian Carlo Calza, autore di saggi come Genji, il principe splendente (Electa) o Stile Giappone (Einaudi) – in un certo senso il samurai è stanco». Altro che. Qualche dato sull’industria automobilistica, fino a poco tempo fa spina dorsale del sistema Giappone, ci aiuta a capire. I primi tre colossi dell’auto nipponica hanno avuto a febbraio un calo delle vendite a doppia cifra: Toyota, leader mondiale, ha perso (escludendo Lexus) il 32%; Honda ha ceduto terreno nella misura del 21,1%; Nissan, infine, ha avuto una frenata del 35,2%. Considerando l’altro settore forte del Paese, l’elettronica, l’export è franato del 45,7% su base annua, la contrazione più ampia dall’inizio della serie storica della statistica. Il tutto reso ancor più difficile da uno yen forte che paralizza ogni minima possibilità di ripresa. Così il Giappone registra a gennaio il deficit commerciale più pesante di sempre: 952,6 miliardi di yen (quasi 8 miliardi di euro), peggio degli 824,8 miliardi di gennaio 1980. solo colpa della crisi mondiale, o è un sistema intero che si trova in affanno? «L’economia è un aspetto del problema – spiega ancora Calza ”. In realtà a Tokyo c’è un establishment, una classe politica che non sa più dove andare». Aggiunge sull’International Herald Tribune Masaru Tamamoto, ricercatore del World Policy Institute: «Quello che la maggior parte della gente non comprende è che la nostra crisi non è tanto politica quanto psicologica. Dopo la nostra aggressione militare – e la conseguente sconfitta – nella Seconda guerra mondiale, lavoro sicuro e welfare sono diventati gli obiettivi della società. I burocrati hanno assunto il controllo di ogni dettaglio della vita quotidiana. Siamo diventati una nazione con impiego a vita, un sistema-azienda fondato sulla proprietà azionaria condivisa, un’immensa classe media di pari». Il primo colpo a questa chimera egalitaria (in Giappone c’è chi sostiene che la loro è «l’unica economia veramente socialista dell’area») è arrivato dallo scoppio della prima bolla finanziaria, nel 1990. Ma è stata la crisi partita dai mutui americani nel 2007 ad aver dato il colpo di grazia al sistema. Che ora appare refrattario a qualunque cura. «Ora tutti si consolano – sostiene ancora Tamamoto – con la consapevolezza che l’infelicità è equamente suddivisa tra tutti». Il Giappone è fermo, dunque. Bloccato. Un Paese costruito, dopo l’ubriacatura militarista della prima metà del Novecento, sulla conquista dei mercati del mondo attraverso l’arma dell’esportazione, scopre che non c’è più spazio per le proprie merci. Ma, come l’alce che infila la testa e il suo palco in una soglia, non è più capace né di fare retromarcia, né di trovare altre vie d’uscita. Persino il suo status di referente principale degli Stati Uniti nel Pacifico è messo in discussione, soprattutto all’interno. «Il Giappone – dice Gian Carlo Calza – si trova ora in un guado simile a quello attraversato al crepuscolo dell’era Tokugawa (prima metà dell’Ottocento), quando era chiaro a tutti che il sistema politico andava rinnovato ma nessuno sapeva come. Allora, con il potere in mano allo Shogun, il Paese era chiuso su se stesso, impermeabile al mondo. E in stallo, proprio come è oggi». Fu il commodoro americano Perry, forzando i porti e obbligando il Paese all’apertura (1853-1854), a innescare una serie di eventi che portarono alla restaurazione imperiale e alle riforme dell’era Meiji: un salto verso la modernità. «L’arrivo di Perry fu essenziale, certo – prosegue Calza ”. Ma non era che il pretesto atteso dalle "forze giovani" per portare al governo una nuova classe politica. E cancellare la precedente: cosa che avvenne senza esitazioni. Ma il Giappone fece il passo decisivo verso lo sviluppo industriale con i germi che lo avrebbero portato al disastro militare: il nazionalismo e la spinta a dominare l’Asia». Uscita a pezzi dal confronto bellico con l’America, Tokyo sembrava aver ritrovato una vocazione nel miracolo economico e nel recuperato ruolo egemone – per quanto inoffensivo militarmente – nell’Asia del Dopoguerra. «Portaerei» americana verso Corea prima, e Vietnam poi, il Giappone era in realtà tornato a ragionare in termini di chiusura: inondare il mondo con le merci, cercare di proteggere quanto più possibile la «Japanese way of life», presentarsi come «faro» dello sviluppo asiatico, cercando di superare i fantasmi del recente passato. La classe politica, tuttavia, non era cambiata. Il passaggio, indolore o quasi, dal «prima» al «poi» era stato reso simbolicamente dalla permanenza sul trono dell’imperatore, il Tenno (Figlio del Cielo), con il placet di Washington. «Quella classe politica – conclude Calza – è ancora lì. Il potere è nelle stesse mani da decenni. Soltanto un uomo, in tempi recenti, ha osato provare una riforma alle radici: Junichiro Koizumi. Ma come ha toccato il sistema nei punti più sensibili, le rendite di posizione politiche ed economiche (riforma della Poste e delle pensioni), è scoppiato il pandemonio. E Koizumi è stato costretto a lasciare». Come giudicare adesso caparbiamente a tenere in sella il Partito liberaldemocratico, ovvero - agli occhi dei giapponesi - il simbolo stesso delle iligarchie superate dalla Storia? «Il Giappone ha un bisogno disperato di cambiamento - sono le parole di Masaru Tomomoto - . E per cambiare occorrre prendersi dei rischi. Ma non vedo persone pronte a sfidare la sorte in questo momento». Il samurai non ha più scelte. Se non ritrovare il coraggio.