Alan Greenspan, Wall Street Journal copyright Milano Finanza 13/03/2009, 13 marzo 2009
Wall Street Journal, venerdì 13 marzo 2009 La crisi che stiamo attraversando sarà senza dubbio ricordata come la più grave dal 1929
Wall Street Journal, venerdì 13 marzo 2009 La crisi che stiamo attraversando sarà senza dubbio ricordata come la più grave dal 1929. Prima o poi finirà e anch’essa passerà alla storia. Ma il modo in cui saranno interpretate le cause e gli effetti di questa severa contrazione condizionerà la riconfigurazione del sistema finanziario globale, oggi paralizzato. Ci sono almeno due spiegazioni evidenti, ma confliggenti tra loro, dell’origine della crisi. La prima è che le politiche di «allentamento monetario» della Fed hanno prodotto la bolla immobiliare negli Stati Uniti alla base dei problemi finanziari di oggi. Per la seconda spiegazione, assai più verosimile, in realtà è stato il calo dei tassi di interesse a generare l’euforia speculativa. Il tasso di interesse da considerare, però, non era quello dei fondi federali, ma quello, fisso, sui mutui a lungo. Tra il 2002 e il 2005, i tassi sui mutui hanno fatto crescere i prezzi delle case americane con un ritardo di 11 mesi. La correlazione tra prezzo delle case e i tassi sui mutui era estremamente significativa, e molto più stretta che non con il tasso dei fondi federali. Ciò non dovrebbe sorprendere. Dopotutto, i prezzi dei beni durevoli sono sempre stati determinati detraendo dal flusso del reddito (o dei servizi imputati) i tassi di interesse con scadenza pari alla vita del bene. Nessuno, per quanto ne so, utilizza tassi overnight, come il tasso dei fondi federali, per determinare il tasso di capitalizzazione di un immobile, sia che si tratti di un edificio commerciale o di una casa singola. La Federal Reserve si è resa conto della mancanza di collegamento tra politica monetaria e tassi di interesse, quando questi ultimi non reagirono come previsto alla stretta operata dalla Fed alla metà del 2004. Inoltre, i dati mostrano che i tassi sui mutui immobiliari si erano resi gradualmente indipendenti dalla politica monetaria già da prima, in seguito alla nascita, attorno all’inizio di questo secolo, di un mercato internazionale ben regolamentato degli strumenti di debito di lungo termine. Il collegamento tra i tassi sui mutui e i tassi a breve americani è stato molto stretto per diversi anni. Tra il 1971 e il 2002, il tasso dei fondi federali e il tasso sui mutui si sono mossi parallelamente. La correlazione tra loro era dello 0,85. Tra il 2002 e 2005, invece, la correlazione è calata fino a livelli insignificanti. Come osservavo nel dicembre 2007, la causa presunta del calo a livello mondiale dei tassi a lungo termine è stato il passaggio strutturale, all’inizio degli anni 90, della maggior parte dei paesi in via di sviluppo da una forte enfasi sulla pianificazione centrale a una competizione sempre più dinamica, trainata dalle esportazioni. Il risultato è stato un aumento della crescita in Cina e in un gran numero di altre economie di mercato emergenti che ha portato a un eccesso di risparmio globale rispetto agli investimenti. Quell’eccesso di risparmio ex ante ha alimentato un progressivo calo dei tassi di interesse a lungo termine a livello globale tra l’inizio del 2000 e il 2005. Questo declino dei tassi a lunga scadenza in un gran numero di paesi statisticamente spiega, e ne è la causa più probabile, il calo e la convergenza dei tassi di capitalizzazione degli immobili in tutto il mondo, con la conseguente creazione della bolla immobiliare internazionale (la bolla dei prezzi americana era pari o inferiore alla media, secondo il Fmi). Nel 2006, i tassi di interesse a lungo termine e i tassi sui mutui immobiliari, trainati dai primi, per tutte le economie sviluppate e i principali paesi in via di sviluppo erano calati a livelli mai visti prima. Sarebbe stato logico pensare che il peso di una tale evidenza sarebbe bastato a spiegare la crisi attuale. Invece, a partire dalla metà del 2007, la storia ha iniziato a essere riscritta, in gran parte dal mio buon amico ed ex collega, il professor John Taylor della Stanford University, con il quale raramente sono stato in disaccordo. Lo scorso mese il professor Taylor ha dichiarato che se la Fed nel periodo 2003-2005 avesse mantenuto i tassi di interesse a breve ai livelli indicati nella sua «Regola di Taylor, avrebbe evitato l’espansione e la successiva frenata del settore immobiliare». Questo concetto è stata ripetuto tante di quelle volte da essere ormai parte del buon senso comune. A parte l’utilizzo inappropriato dei tassi di breve termine per spiegare il valore degli asset di lunga durata, la sua accusa statistica alla politica della Federal Reserve nel biennio 2003-2005 non considera gli straordinari sviluppi strutturali avvenuti nell’economia globale più sopra ricordati. La sua analisi statistica applica le relazioni empiriche dei decenni precedenti al periodo più recente, al quale non sono più applicabili. Inoltre, anche se ritengo che la Regola di Taylor sia un’utile prima approssimazione sulla strada della politica monetaria, i suoi parametri e le sue previsioni derivano da modelli strutturali finora mai in grado di anticipare l’inizio delle recessioni. Ipotesi nate da strutture così viziate non possono costituire l’unica base per il successo di un’analisi o di una politica, a prescindere dal senno di poi. Data l’indipendenza dalla politica monetaria dei tassi sui mutui a lungo termine, accelerando il percorso della stretta monetaria che la Fed ha operato nel periodo 2004-2005 non si sarebbe evitata la bolla immobiliare. Tutto sommato, personalmente preferisco la valutazione che fece Milton Friedman della performance della Fed. Analizzando il periodo dal 1987 al 2005, all’inizio del 2006, Friedman scrisse che «in nessun periodo di lunghezza paragonabile la Federal Reserve ha agito così bene». Cosa cambia se la bolla è stata provocata da una politica monetaria inadeguata, sulla quale i legislatori hanno il controllo, o da forze globali più grandi sulle quali il loro controllo è limitato? Molto. Se la colpa è della politica monetaria, questa potrà essere corretta in futuro, almeno in teoria. Se, invece, abbiamo a che fare con forze su cui i legislatori nazionali non hanno controllo, come fortemente sospetto, ci troviamo davanti a un problema più grande. La concorrenza e l’integrazione sui mercati globali per merci, servizi e finanza ha portato a livelli di benessere senza precedenti. Ma la crescita dei mercati altamente competitivi è ciclica. E raramente si può interrompere, con conseguenze come quelle che stiamo vivendo attualmente. Ora, è molto chiaro che i livelli di complessità ai quali i professionisti del mercato, al massimo della loro euforia, hanno cercato di spingere le tecniche di gestione del rischio e i prodotti erano troppo elevati anche per gli operatori più sofisticati, che non sono riusciti a gestirli adeguatamente. Tuttavia, la risposta appropriata non consiste nel frenare l’intermediazione finanziaria con severe normative. In questo modo si soffocano gli importanti progressi che hanno consentito di migliorare gli standard di vita. Ricordatevi, prima della crisi negli Usa la produttività cresceva a un ritmo impressionante. E raggiungere questo con un livello modesto di risparmio nazionale ed estero combinato dava una misura del successo del nostro sistema finanziario prima della crisi. Le soluzioni ai fallimenti di aziende finanziarie rivelati dalla crisi sono maggiori quantità di capitale e una più severa punizione delle frodi, non un maggiore intervento del governo nella gestione delle aziende. Qualsiasi nuova norma dovrebbe migliorare la capacità delle istituzioni finanziarie di incanalare il risparmio nazionale verso gli investimenti più produttivi. Molte normative non sono in grado di farlo, spesso sono costose e controproducenti. Adeguate disponibilità di capitale e garanzie possono combattere la debolezza che la crisi ha portato alla luce. Tali requisiti non saranno eccessivamente intrusivi, e perciò non interferiranno troppo nelle decisioni del settore privato. Se vogliamo mantenere l’economia mondiale in grado di crescere nel tempo in modo sostenibile, non possiamo affidare agli Stati l’intermediazione di risparmio e investimenti. La nostra sfida nei prossimi mesi sarà l’introduzione di norme tali da garantire la responsabile gestione del rischio da parte delle istituzioni finanziarie, incoraggiandole al tempo stesso a continuare a prendersi i rischi tipici di ogni economia di mercato di successo. Alan Greenspan