Fabio Martini, La stampa 13/3/2009, 13 marzo 2009
DOROTEI DA CINQUANT’ANNI
Sul far nella notte, i signori in cappotto avevano bussato alla porta del convento di Santa Dorotea, ma lì dentro le suore erano già avvolte nel silenzio dei loro giacigli. All’ingresso madre Bartolomea si era trovata ad ascoltare una strana preghiera: «Madre, ci servirebbe l’aula del convento fino all’alba...». A chiedere ospitalità erano onorevoli, onorevoli della Dc, ma la superiora provò a resistere: «A quest’ora...». I signori, inizialmente così gentili, lo diventarono sempre meno e ad un certo punto fecero il nome di «monsignor Mario Nasalli Rocca», sovrintendente ai conventi, quasi ad alludere ad una possibile sanzione nel caso in cui le porte non si fossero aperte. Era la notte del 13 marzo 1959. Quella irruzione così sgradita alle suore, qualche tempo dopo, fu all’origine di una severa disposizione firmata da Papa Giovanni XXIII: «I conventi devono restare luoghi di preghiera». Eppure, nel tempo lungo della storia, la disposizione pontificia ha finito per rivelarsi più effimera di quanto decisero quella notte in convento i notabili democristiani, alcuni dei quali sarebbero diventati presidenti della Repubblica, presidenti del Consiglio, ministri.
Il 13 marzo di cinquanta anni fa, sul colle del Gianicolo, il sassarese Antonio Segni, il veneto Mariano Rumor, il genovese Paolo Emilio Taviani, il lucano Emilio Colombo, i giovani Francesco Cossiga e Remo Gaspari e altri ancora, diedero vita ad una nuova corrente democristiana - presto ribattezzata come dorotea - che non solo diventò la quintessenza della Dc, il centro del centro, ma soprattutto avrebbe finito per definire una categoria della politica e del costume nazionale. Doroteo, come dire: il potere per il potere. L’estrema concretezza. Lo spalmarsi sulla realtà, senza mai pretendere di guidarla. Il tutto condito da un linguaggio rotondo, senza spigoli, un dire per non dire niente, che avrebbe dominato per decenni. «Né a destra né a sinistra, ma avanti!», disse una volta il trentino Flaminio Piccoli. Mentre Arnaldo Forlani, un personaggio che doroteo lo è stato nell’animo, coniò una massima indimenticabile: «La Dc, se sceglie, sbaglia».
Il senatore a vita Emilio Colombo si ribella all’etichetta più cruda: «E’ macchiettistico dire che pensavamo soltanto ad arraffare e distribuire cariche: il compromesso, quando non incide sui principi, è una grande arte che abbiamo imparato da De Gasperi». Anche perché il doroteismo per certi versi, è una categoria universale. Nel 1961 il primo ministro sovietico Nikita Kruscev, incontrando Amintore Fanfani, gli confidò: «Anche io ho i miei dorotei...». Il grintoso Amintore ne sapeva qualcosa: i dorotei veri, sotto la guida di Aldo Moro, erano nati proprio contro l’aretino, per smorzare l’impeto riformatore del primo centrosinistra e soprattutto per sbriciolare una concentrazione di potere mai vista prima di allora: nel 1958 Fanfani, da segretario del partito, era riuscito a diventare anche presidente del Consiglio e ministro degli Esteri. I dorotei hanno sempre considerato demoniaco il leaderismo e infatti bisognerà aspettare la loro morte politica per rivedere un capo partito - Berlusconi - concentrare quei tre incarichi. Ma se il Cavaliere - per stile e linguaggio - è l’anti-doroteo per eccellenza, chi sono nella politica italiana i «nuovi dorotei»? Tutti coloro che, a sinistra e a destra, hanno cavalcato politiche opposte, pur di restare a galla? Oppure personaggi-quintessenza del potere come Gianni Letta? Scuote la testa Marco Follini, un ex democristiano che sulla Dc ha scritto un saggio: «Il doroteismo è stato la bandiera politica di quella Italia lì. Lenta, rispettosa, non innovativa. Con l’idea di fondo che i processi andavano accompagnati, smorzandone l’impeto riformatore. Quell’Italia è finita con la Dc». Ma mentre la Dc gode di un crescente, benevolo revisionismo, i dorotei sono ancora inchiodati alla loro immagine di pragmatici immobilisti. Anche a dispetto di contributi di segno opposto. Nel suo «Italiani sono sempre gli altri» Francesco Cossiga racconta un episodio rivelatore: Rumor, «un cattolico liberale», «coltissimo», «sottovalutato dalla storia», nel 1974, davanti al pressante e informale appello di Paolo VI ad impegnarsi nella battaglia contro il divorzio, nella decisiva riunione del vertice Dc, disse da presidente del Consiglio: «Chi se ne importa del Papa! Cerchiamo di convincerlo». Racconta Cossiga: «Ci volle tutta l’autorità di Moro per dirgli: ”Caro Mariano, ma a noi chi li dà i voti?”. E noi obbedimmo». Compreso Mariano Rumor, «il più laico di tutti».