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 2009  marzo 13 Venerdì calendario

Claudio Fava, I disarmati. Storia dell’antimafia: i reduci & i complici, Sperling & Kupfer, 224 pagine, 17 euro

Claudio Fava, I disarmati. Storia dell’antimafia: i reduci & i complici, Sperling & Kupfer, 224 pagine, 17 euro. Anniversari. 5 gennaio 2009, venticinque anni dall’assassinio di Giuseppe Fava, direttore de ”I Siciliani” (mandante Nitto Santapaola, boss catanese, condannato in via definitiva nel 2003). «Credo che sia tempo di ripercorrere questi anni senza indulgenze e senza reticenze. Raccontando i vivi, per una volta: non i morti». Ermellini. Una settimana dopo l’omicidio Fava, all’inaugurazione dell’anno giudiziario, il procuratore generale «si strinse nella sua pelliccia d’ermellino, inforcò gli occhiali e infine spiegò che nel distretto giudiziario di Catania non vi era stato alcun episodio di criminalità mafiosa. Scusi, procuratore: ma allora, Giuseppe Fava?». Protettori. Le indagini per l’omicidio Fava, condotte all’inizio dal pubblico ministero Giulio Cesare Di Natale, furono incentrate solo sui familiari del giornalista ucciso («I nostri telefoni furono messi sotto controllo per mesi, i nostri conti rivoltati come calzini»). Dieci anni dopo il ritrovamento di un brogliaccio di Nitto Santapaola, con l’annotazione dei piccioli da distribuire per ricompensare i suoi protettori (tra i nomi Giulio Cesare Di Natale). Presidenti. Giovanni Leone, che qualche anno prima di essere eletto Presidente della Repubblica, come avvocato, aveva fatto assolvere un Francesco Ferrera, detto ”cavadduzzo” (malandrino di Catania, aveva ammazzato a revolverate un uomo che gli aveva mancato di rispetto), facendo valere nell’arringa lo stato di necessità: «Cosa c’è quaggiù di più prezioso della vita? La dignità, perbacco!» (a salutarlo davanti al Quirinale il giorno del suo insediamento l’intera cosca dei Ferrera, duecento picciotti). Giudici. Il giudice istruttore di Catania Luigi Russo, che assolse i cavalieri del lavoro Gaetano Graci e Carmelo Costanzo accusati di essere collusi con la cosca mafiosa dei Santapaola (Nitto era ospite immancabile nelle loro riserve di caccia e ai matrimoni), invocando lo stato di necessità. Come a dire che per fare l’imprenditore in Sicilia bisogna scendere a patti con la mafia, «posto che, nello scontro frontale con la mafia, risulterebbe perdente sia il più modesto degli esercenti sia il più ricco titolare di grandi complessi aziendali» (sentenza firmata il 4 aprile 1991). Editori. Mario Ciancio, editore della ”Sicilia”, che rifiutò il necrologio sulla morte di Giuseppe Fava, perché conteneva la parola mafia. Nel 1990, alla morte del cavaliere Carmelo Costanzo, invece pubblicò quattro pagine intere di necrologi. Ipermercati. Nel marzo 2005 il Comune di Catania modificò il piano regolatore qualificando zona commerciale 240 mila metri quadri, prima destinati a verde agricolo, al fine di costruire il più grande centro commerciale della Sicilia (per una densità in metri quadri di ipermercati superiore a Milano). «Operazione fortunata per i proprietari dei terreni prescelti che vedranno decollare il loro valore da 3 a 50 euro al metro quadro. Chi c’è tra codesti proprietari? I Ciancio, perdiana!». Parolieri. «La mafia? Un concetto astratto... per conoscerla, bisogna circoscriverla ai singoli mafiosi e dire che la mafia non esiste. L’antimafia? Malefica! Ha eliminato quel rozzo capitalismo che nasceva, per esempio, a Catania e che, essendo nascente, non era né un convento di monache né una scuola di educande» (Manlio Sgalambro, filosofo, paroliere, coautore di canzoni di Franco Battiato). Mastri. Vincenzo Conticello, proprietario dell’antica Focacceria San Francesco (Palermo), che per avere fatto condannare i suoi estorsori, in due anni vide precipitare il suo fatturato da 600.000 a 18.000 euro. «Prima i politici palermitani si mettevano in fila per commissionargli i catering in campagna elettorale; adesso preferiscono farsi preparare gli sfingioni da qualche friggitoria meno esposta». Giornalisti. Mario Francese, cronista di punta del quotidiano palermitano Giornale di Sicilia, ucciso il 26 gennaio 1979, più di tutto per avere pubblicato un’inchiesta sulla diga Garcia (per costruirla Regione e Cassa per il Mezzogiorno avevano stanziato più di 350 miliardi di lire, bastati appena per espropriare le terre ai proprietari, tra cui Nino e Ignazio Salvo e Totò Riina, che a loro volta li avevano acquistati a prezzo di pascolo, quaranta volte di meno). Lasciava un figlio di tredici anni, Giuseppe, che, diventato grande, raccolse indizi della colpevolezza dei mafiosi e riuscì a convincere la Procura a riaprire le indagini. Quando i giudici inflissero dodici ergastoli agli assassini, lui annotò sul diario: «Adesso il mio lavoro è finito», e si uccise (primavera del 2002). Giornalisti/2. Giornalisti uccisi in Sicilia da Cosa Nostra: otto. «In apparenza sono cifre da guerra civile. Invece la Sicilia è terra di pace, di democrazia, di antica civiltà del vivere. Eppure ne hanno uccisi più quaggiù che in Bosnia o in Somalia. Con una differenza non di dettaglio: la morte, in quelle contrade, è quasi sempre un gioco del caso, un fottuto destino, un’imprudenza durante il coprifuoco, un passo di troppo nella terra di nessuno […] In Sicilia, no. Ciascuno di quegli otto giornalisti è stato ammazzato perché andava ammazzato, ridotto al silenzio, estirpato dalla vita». Antimafia. «L’antimafia è conoscenza: chi non sa, non può scegliere, non può ribellarsi, non può sperare. Ecco perché Cosa Nostra ammazza i giornalisti. Ne fai fuori uno e ne educhi cento, gli insegni qual è la soglia da non oltrepassare, la domanda da lasciar morire in tasca, gli spigoli da tagliar via a ogni articolo». Peculato. Attilio Bolzoni e Saverio Lodato, corrispondenti di ”Repubblica” e ”Unità” al tempo del maxiprocesso, arrestati e chiusi in isolamento per peculato nel carcere di Termini Imerese (avevano fotocopiato i verbali di un interrogatorio a palazzo di giustizia, usando risma di carta di proprietà dello Stato). A firmare il mandato di cattura il capo della Procura Salvatore Curti Giardina (il primo provvedimento da quando si era insediato al palazzo di giustizia). Giurati. I sei giurati popolari del maxiprocesso (nessuno dei primi estratti a sorte rifiutò). «A Torino, nel primo processo alle Brigate Rosse, di giurati popolari se ne estrassero un centinaio prima che si potesse cominciare […] A Palermo, in culo al mondo, nessuno si tirò indietro quando gli dissero che c’era da processare la cupola della mafia». Comunisti. «I soldi degli appalti? Li ho presi anch’io quando ero segretario della federazione di Palermo. Ma c’erano tre regole: primo, non mettersi una lira in tasca; secondo, non dare nulla in cambio; terzo, non farsi pescare. Gli imprenditori palermitani ci davano gli avanzi per cautelarsi a sinistra: se poi trattavano con la mafia erano affari loro...» (Napoleone Colajanni, tra i fondatori del PCI siciliano). Tutti. «’A pignata ava vugghiri ppi tutti», ”la pentola deve bollire per tutti” (Salvo Lima, leader della corrente andreottiana in Sicilia, ammazzato il 12 marzo 1992). Grassi. «Se nel 1991 a Palermo ci fosse stato Ivan Lo Bello, Libero Grassi sarebbe ancora vivo» (Libero Grassi, l’imprenditore palermitano ammazzato alle spalle il 29 agosto 1991 per aver denunciato i suoi estorsori alle autorità, sui giornali e perfino in televisione; Ivan Lo Bello, produttore di biscotti, presidente di Confindustria siciliana dal 2006, che introdusse la regola dell’espulsione dall’associazione degli imprenditori che pagano il pizzo). Sindacalisti. Lo sciopero dei cinquemila dipendenti del comune di Palermo, durato tredici giorni, proclamato tra la fine di novembre e i primi di dicembre 1988 dai rappresentanti sindacali locali di CGIL, CISL e UIL, perché la giunta Orlando (diventato sindaco nell’87), non aveva aggiudicato l’appalto per la manutenzione delle strade e delle fogne di Palermo ai Cassina, che vi dovettero rinunciare dopo quattordici anni. In piazza anche Sergio D’Antoni, allora segretario regionale siciliano della CISL, che al microfono gridò: «Se lottare per i lavoratori significa essere mafiosi, allora viva la mafia!» (e Raffaele Bonanni, segretario provinciale, che sorrideva dietro di lui in segno di assenso). Squisiti. «I mafiosi veri sono persone in apparenza squisitissime: escono, vanno a fare quello che devono fare, tornano a casa e sorridono» (Pippo Montaperto, cronista palermitano, «amico dei capimafia»).