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 2009  marzo 18 Mercoledì calendario

CLINT EASTWOOD


Gli uomini vengono da Marte, le donne vengono da Venere. Clint Eastwood è nato ufficialmente nel 1930 a San Francisco ( California) ma viene dal pianeta dei cowboy, degli uomini veri che parlano poco ma che quando parlano dicono quello che pensano, un pianeta leggendario la cui caricatura è finita, nel corso del tempo, negli spot dei dopobarba.
Al contrario della caricatura, la sostanza di quell’idea di uomo è Clint in carne e ossa. Alto un metro e novanta, schiena dritta, vestito senza frivolezza (polo verdina, giacca beige, pantaloni tabacco), si alza in piedi per stringerti la mano e poi, con rilassata nonchalance, si stende sul divano, con i piedi rivestiti di un paio di sneakers bianche che penzolano fuori dal bracciolo. Nel mio campionato personale, ha già vinto il premio come intervistato più cool della storia.
Prima di entrare in questa stanza, ho fatto anticamera con altri colleghi stranieri: caso strano, questa volta sono tutti uomini. Forse avrei dovuto interrogare loro per capire perché Clint è diventato Clint, il maschio Alfa con la pistola alla mano anche alla vigilia dell’ottantesimo compleanno, ma anche con un cuore grande, capace di grandi struggimenti.
Siamo a Parigi, l’occasione è la promozione di Gran Torino (al cinema dal 13 marzo), da Eastwood diretto e interpretato. Un piccolo film rispetto al precedente Changeling (nessuna ricostruzione d’epoca, nessuna star come Angelina Jolie) ma uno dei più riusciti della sua prolifica filmografia.
Interamente girato in un’unica strada e in un paio di interni, racconta di un pensionato antipatico, acido e razzista che entra in contatto con i suoi vicini, immigrati Hmong, quasi ignota razza di abitanti del Laos e Paesi limitrofi che si alleò con gli Usa durante la guerra di Corea. La «Gran Torino» del titolo è un’automobile Ford degli anni Settanta che il protagonista tiene chiusa in garage, feticcio e ricordo di un altro se stesso, più giovane e felice. Nell’insieme il film è un ritratto dell’America poco conciliante, poco speranzoso, poco «obamiano». Secondo i cinefili, il personaggio di Clint è la versione anziana dell’ispettore Callaghan. Secondo le voci che girano, l’ultimo film di Eastwood attore.

Davvero non reciterà più?
«Non ne ho idea. L’avevo già detto, rimuginando ad alta voce davanti a qualche giornalista, dopo Million Dollar Baby. Ero praticamente sicuro che non sarebbero più capitate altre parti per me. Ho 78 anni, la gente della mia età è difficilmente protagonista. Però, come è arrivato Gran Torino, potrebbe capitare altro».

Al cinema, lei è «morto» diverse volte. Qui, c’è addirittura una scena in cui la si vede steso dentro una bara. Le ha fatto effetto?
«No, perché? Prima o poi, lì dentro ci finiremo tutti, no? Meglio poi che prima, potendo scegliere. Comunque, io, alla morte non penso mai».

Sì, ma a stare immobile dentro a una bara non vengono i brividi?
«E’ la scena di un film! Comunque no, non sono superstizioso, se è questo che vuole sapere».

Lei ha sostenuto la campagna di John McCain, qualcuno ha scritto che questo è un film «conservatore» e che è per questo che non ha ricevuto candidature all’Oscar, nell’anno dell’Obama-mania.
«Non penso che Gran Torino sia un film conservatore. Lo è il personaggio del protagonista, un uomo intollerante e pieno di pregiudizi. Ma li mette in discussione e cambia. Molto liberale, altro che conservatore. Quanto agli Oscar, non credo alle teorie dei complotti. Per gli ultimi cinque film, ho ricevuto tre nomination: si vede che hanno deciso di farmi saltare un giro».

Come miglior attore, quest’anno ha vinto Sean Penn per la seconda volta. La prima fu grazie alla sua regia di Mystic River. Lei va d’accordo con Sean?
«Molto. Gli voglio bene, lo stimo e credo che la cosa sia reciproca».

Ma parlate mai di politica?
«A dir la verità, no. Lo abbiamo fatto una volta sola. Quando giravamo Mystic River, arrivò la notizia della dichiarazione di guerra all’Iraq. Né io né Sean eravamo contenti».

Che cosa ricorda degli anni «italiani», del periodo degli spaghetti western?
«Un giorno qualcuno mi diede una sceneggiatura scritta da un italiano, Sergio Leone, che non avevo mai sentito nominare. Era Per un pugno di dollari, la lessi e pensai: "Quest’uomo ha senso dell’umorismo, mi piace". E accettai. Giravamo in Spagna, con troupe in maggioranza italiane. Si stava bene. Sono tornato in America dopo Il buono, il brutto, il cattivo solo perché temevo di essere condannato a fare western tutta la vita. Ma sono stati anni bellissimi».

Ho notato che ha detto i titoli dei film in italiano. E ricordo che due anni fa, agli Oscar, consegnò il premio alla carriera a Ennio Morricone con un discorso in italiano. Quindi, lo parla?
«Quando sono in Italia, ricordo tutto, quando non ci sono, non ricordo niente (lo dice in un italiano buffo ma corretto, ndr)!».

Dopo i western, l’ispettore Callaghan. E poi, un bel giorno, ha deciso di fare anche il regista. Come è andata?
«Ci pensavo da anni, in realtà. Ricordo che quando giravo il telefilm Rawhide, qualcuno disse che avrei potuto dirigerne un episodio. Non se ne fece niente perché avevano appena fatto dirigere una puntata di un altro telefilm a un altro attore ed era stato un disastro. Mi morsi la lingua per non protestare e misi da parte il sogno, ma continuai a pensarci, "studiavo" il lavoro di altri, di Leone e di Don Siegel, con questa ossessione in testa. Poi, a quarant’anni, ce l’ho fatta. E, in fondo, penso che sia valsa la pena aspettare».

Si dice che lei sia un regista molto rapido ed efficiente. E’ una bella reputazione da avere.
«La ringrazio. Lei non ha idea di quanti registi ci siano in giro che stanno lì ad ammazzare il tempo. lo so di essere pagato per completare un certo lavoro entro una certa scadenza. E cerco di farlo».

Tutto qui? «Tutto qui. Perché, c’è altro?».
L’ispirazione. Il progetto artistico. Per esempio, lei che cosa ne pensa della contaminazione che c’è stata negli ultimi anni tra i film di genere e il resto? Perché non esiste più la «serie B»?
«Se una storia è buona, non ti domandi se è di serie A o di serie B. La storia è tutto, è il re e la regina. Puoi raccontarmela con un budget di pochi dollari o con i miliardi, ma se la storia vale poco, non c’è niente da fare. Se, invece, la storia è buona, sbagliare è molto difficile».

Tutte le storie sono romanzi di formazione, in fondo. Anche quella del pensionato razzista di Gran Torino.
«Certo. Non si è mai troppo vecchi per imparare e per cambiare. Si può sempre entrare in una nuova cultura e guardare se stessi con occhi diversi: questo è il punto del film».

Come è possibile che lei, il cowboy, il vendicatore, quello di Make My Day, abbia girato un film romantico come Iponti di Madison County?
«Non lo so e non lo voglio sapere! Però mia moglie Dina (Ruiz, giornalista televisiva, ndr) dice sempre che, tra tutti i personaggi dei miei film, quello che assomiglia di più al vero Clint è il tipo dei Ponti di Madison County».

Sbaglio o risale al periodo in cui ha conosciuto Dina? C’è un collegamento tra l’aver trovato l’amore della sua vita e quel film?
«Dina mi intervistò poco prima che io iniziassi a girare il film, ma la nostra storia cominciò davvero quando tornai dopo la fine delle riprese. Quindi, forse, ho trovato l’amore della mia vita influenzato dal film e non viceversa».

Dina ha detto in un’intervista che essere la moglie di Clint è un lavoro a tempo pieno. Starle dietro è un’impresa.
«Potrei dire lo stesso di Dina. Non sta mai ferma. Ma è una brava ragazza».

Dina ha anche detto che lei è molto attento al denaro perché è figlio della Grande Depressione. Che differenza c’è tra la crisi di allota e quella che viviamo oggi?
«Durante la mia infanzia, la mia famiglia ha girato di città in città in cerca di lavoro. Non c’era nessuna forma di sicurezza sociale. Io ero bambino, non sapevo che c’era la Depressione ma ricordo benissimo gli insegnamenti di mio padre: si spende quello che ci si può permettere di spendere e si mette da parte qualcosa per i tempi bui. Se avevi in tasca cinque dollari e li finivi, era finita la tua fortuna. Non c’erano le carte di credito, il denaro di plastica che ti illude di essere ricco».

Povertà e razzismo, allora come ieri, vanno di pari passo?
«Non credo. Negli anni Trenta tutti erano senza lavoro, tutti erano nella stessa barca. In California, almeno così ricordo io, ci si prendeva in giro, tra bianchi e ispanici, tra americani e italiani, con un linguaggio che oggi sarebbe definito politicamente scorretto. Ma c’era più tolleranza rispetto all’ipocrisia di oggi. La povertà non c’entra niente con il razzismo. La crisi che stiamo vivendo in America è frutto degli sprechi degli ultimi anni. Tutti a spendere come marinai ubriachi in licenza al porto, tutti a spendere soldi che non esistono».

Morgan, figlia sua e di Dina, ha 13 anni. Lei le permette di ascoltare Britney Spears e cose del genere?
«lo sono cresciuto con Ella Fitzgerald e Sarah Vaughan. Mi è difficile apprezzare altro. Pazienza se Morgan ascolta Britney. L’importante è che non la voglia emulare».

E’ soddisfatto di come è andata finora la sua vita, signor Eastwood?
«Sì, ma ho ancora molte cose da fare. Non ho finito».