Marco Ferrante, il Riformista 11/3/2009, 11 marzo 2009
CRISI E MERCATO. STA DAVVERO FINENDO IL MONDO?
Tema: come si rimpiazza il libero mercato? A questa domanda ha cominciato a rispondere il capo degli economisti del quotidiano economico inglese, Martin Wolf. Dopo una lunga articolata analisi che parte dal racconto degli anni di Ronald Reagan, Margaret Thatcher, Deng Xiao Ping e del presidente della Fed di quella fase Paul Volcker (quest’ultimo oggi tornato in pista come consulente di Barack Obama), Wolf conclude con previsioni estremamente apocalittiche.
Sostiene che come a seguito della Grande Depressione si rafforzarono socialismo e comunismo, così stavolta rischiamo l’insorgere di processi nazionalisti. Torneranno le tasse sulla ricchezza, saranno rivisti i sistemi pensionistici, i rigidi controlli degli stati sul mercato porteranno al protezionismo, aumenteranno i poveri, si arresterà il processo di crescita dei ceti medi nei paesi emergenti, cresceranno i rischi legati al terrorismo, l’occidente perderà di credibilità e - come accadde dopo la prima guerra mondiale - si arresterà il processo di globalizzazione.
La conclusione dell’analisi di Wolf è che l’era delle liberalizzazioni finanziarie è finita e che come dice Dorothy portata dal tornado nella terra di Oz, «ho la sensazione che non siamo più in Kansas». Il problema è dove siamo?
In realtà lo stesso Wolf ci dà una traccia nel suo articolo. Che cosa ha fallito in questi quindici anni? Il cosiddetto new capitalism, dice. Cioè quel processo fatto di globalizzazione e paesi emergenti, con annesso iper-utilizzo della finanza per mettere benzina nel motore delle economie mature, Stati Uniti e Regno Unito in primis, e di alcune in ascesa, Spagna e Irlanda per esempio. Un processo che ha indebolito i meccanismi di controllo sulla finanza e che dunque in realtà non aveva molto di liberale in senso moderno. Giacché il liberalismo economico moderno è costruito su un cardine irrinunciabile, la forza della legge. Regole chiare, ferree (possibilmente poche) per dare limiti e certezze ai giocatori in campo. La crisi innescata dai derivati nasce nella tolleranza estrema dei cosiddetti veicoli fuori bilancio, non in un difetto filosofico del liberalismo in economia.
Lo spaesamento, la sindrome di Dorothy, in questi mesi è un problema comune a gran parte degli economisti e intellettuali liberali occidentali: è capitato di leggere nei mesi scorsi qualcuno di loro confessare che il giorno più triste della vita era stato quello del salvataggio pubblico di Fannie Mae e Freddie Mac, cioè l’atto fisico dell’intervento statale. Ma in realtà il primo punto da cui ripartire dovrebbe essere proprio questo: l’intervento pubblico è un modo estremo in una fase estrema per riparare a gravi errori commessi; la crisi finanziaria nasce dall’allentamento delle regole di funzionamento del mercato. Quelle regole vanno ristabilite. Non dovrebbe essere in questione la sopraffazione del mercato da parte della politica, solo il ristabilimento corretto del rapporto tra le leggi (e chi le scrive) e il sistema economico.
Il secondo punto da cui ripartire dovrebbe riguardare l’atteggiamento psicologico, la relazione tra verità e volontà, tra l’accettazione della crisi nella sua drammaticità e il modo in cui uscirne. I fattori costitutivi della crisi - che secondo la Banca mondiale porterà al primo calo del pil globale dal 1945 - sono tre: la recessione (cioè il rallentamento dell’economia dopo quindici anni di crescita ininterrotta), la tempesta finanziaria, il pattinamento della globalizzazione. A unificare questi tre aspetti c’è la generale sfiducia. Il meccanismo va invertito. Bisogna trovare entro tempi brevi soluzioni possibili di politica economica: impiego razionale delle risorse pubbliche a disposizione – compreso il rafforzamento dell’ombrello del welfare – e poi bisogna lavorare per restituire sicurezza al libero commercio, riscrivere regole finanziarie al passo con la realtà, e stabilire condizioni euilibrate per finanze pubbliche efficienti. Ma, siccome il mondo non è finito, bisogna anche provare a resistere con la fiducia, soprattutto da parte di chi non è, e non sarà, direttamente investito dalle minacce della Grande Recessione. Il consiglio Epsco sul welfare dell’Unione europea dice che perderemo sei milioni di posti di lavoro nel 2010. Sono un’enormità, certo. Ma, stando ai dati Eurostat di fine dicembre, ricordiamo che ci restereranno nell’eurozona almeno altri 140 milioni di posti di lavoro che non saranno perduti, e 220 milioni nell’Europa allargata a ventisette.