Marta Dassù, Mondo privato e altre storie, Bollati Boringhieri, 2009, 149 pagine, 10 euro., 10 marzo 2009
Marta Dassù, Mondo privato e altre storie, Bollati Boringhieri, 2009, 149 pagine, 10 euro. Unioni
Marta Dassù, Mondo privato e altre storie, Bollati Boringhieri, 2009, 149 pagine, 10 euro. Unioni. «La mia famiglia di oggi sembra l’Unione europea, un’Unione per modo di dire». Fatiche. «Nel mio tempo psicologico è come se mezzo secolo fosse passato in una mezza giornata, tutta impiegata alla ricerca di quella intelligenza […] che a quanto pare non avevo da bambina. E siccome ero proprio convinta che fosse così, è stata una gran fatica. Come è possibile sentire al tempo stesso di non avere vissuto ma di avere fatto una grande fatica?». Altrove. «Tutto è stato confuso da subito. Eravamo Milanesi a Firenze, Comunisti al golf, esonerati dall’ora di religione nei primi anni sessanta. Eravamo, per volere materno, lì ma altrove. E io credo, dottore, che questo essere lì ma essere altrove abbia finito per non farmi sentire da nessuna parte». We will keep bombing. Il marzo 1999, quando, in qualità di consigliere per le relazioni internazionali di Massimo D’Alema, Marta Dassù lo accompagnò nella sua prima visita da presidente del Consiglio alla Casa Bianca. Scopo della visita annunciare l’appoggio dell’Italia nella guerra per il Kosovo, ma D’Alema chiese cosa avrebbe fatto l’America se Miloševi?, come prevedibile, non si fosse arreso subito. Risposta di Sandy Berger, consigliere di Bill Clinton alla Sicurezza nazionale: «Continueremo a bombardare». Insicurezza. Quella comune a tutte le donne che preferiscono lavorare e per questo si sentono in colpa. Quella personale («soltanto mia e a cui scopro di tenere molto»), dovuta alla figura del padre («assente, che a casa non era quasi mai, ma a cui ho voluto molto bene»). Scelte. «Che la vita sia l’effetto di decisioni iniziali a volte poco pensate, o addirittura casuali, mi ha sempre colpito, anzi spaventato. Perché l’illusione è che si tratti di scelte temporanee e reversibili, che ci lasceranno il controllo della nostra esistenza successiva. Mentre la realtà è che molto spesso quelle prime scelte diventano permanenti e cogenti». Senza averne la minima idea Marta Dassù decise la sua vita nel dicembre 1979, quando partì per Roma per alcuni mesi di lavoro al CeSPI, il Centro di politica internazionale allora collegato al Pci. Agitazione. «Preferirei dire che ho lavorato per passione, non per agitazione. Ma non sarebbe la verità». Fallimenti. La consapevolezza di avere viaggiato molto per lavoro senza quasi vedere niente: «Dove erano i paesi, al di là delle mura del potere politico e delle garritte dei nostri militari? […] Questo modo di andare in giro, il modo degli incontri ufficiali, deve avere abbastanza a che fare con i ripetuti fallimenti della politica internazionale». Rimozioni. «Penso che gli Stati, dopo tutto, non si comportino in modo molto diverso dalle persone. Hanno interessi e valori, ma in genere prevalgono i primi. Fanno dei calcoli, compiono delle scelte, commettono degli errori, hanno dei sensi di colpa e, quando possono o viene loro permesso, rimuovono». Mise. Blue-jeans, maglietta e mocassini, più o meno come la vestiva la madre da piccola (mentre le compagne indossavano kilt e calzettoni bianchi e calzavano scarpe di vernice). Maglietta preferita la Lacoste bianca (con cui ha giocato la prima finale di tennis, affrontato il primo esame all’università e il primo convegno internazionale a Parigi, e partorito). Carte. Insegnamento della madre: siete delle donne per caso e dovete diventare delle persone, non un genere femminile. E quindi non sognatevi di giocare in qualche modo una carta sessuale, nella vita: perché vuol dire barare e perché sarebbe di pessimo gusto. Guarigioni. Soffriva di anoressia, ma la madre, invece di mandarla dallo psicologo, la mandò via di casa (comprandogliene un’altra dove andare a vivere da sola). «Ho sempre pensato, negli anni successivi, che questo insieme di coraggio e incoscienza, tipico di mia madre, mi avesse letteralmente salvato […] In via San Niccolò, a distanza di sicurezza dai rapporti familiari, scoprii che qualcuno, bene o male, lo ero. E infatti guarii». Confini. La decisione, dopo un anno al CeSPI, di iscriversi al Pci: «In base a un ragionamento che faceva acqua da tutte le parti ma che ricordo abbastanza bene: visto che l’obiettivo che ci poniamo, come CeSPI, è di tentare di influire sulla cultura internazionale del Pci, tanto vale cercare di farlo da dentro e alla pari […] Ma per me quel partito in cui pure avevo deciso di entrare, praticamente fuori tempo massimo, è sempre rimasto così, un confine freddo». Period. La decisione di tornare a lavorare due settimane dopo aver partorito Chiara (il 23 novembre 1990). «Quando ripenso a quel mio atteggiamento di allora […] non solo mi sento in colpa, mi trovo anche particolarmente stupida […] Ero incapace di mezze misure. Da mia figlia, che amavo moltissimo e che avevo così fortemente desiderato, dovevo soprattutto difendermi. Non si sa poi perché, ma questo era il punto. Io restavo io, period: come un papà qualsiasi, avrei ricominciato a lavorare subito». Nemesi. Il dubbio di avere fatto poco la mamma o di avere educato la figlia con tolleranza («verso la diversità, inclusa quella di mia figlia»). Risultato: averle permesso di sentirsi più libera rispetto all’impronta dei genitori, «talmente libera da sembrare una nemesi, che a volte mi affascina, a volte mi preoccupa: niente sport, niente politica, poco studio, molti amici, molto senso della vita. E troppo edonismo, per ora almeno». Ansia. «Questo scomodo match fra paura di fallire e volontà o velleità di riuscire, ha fatto di me quello che sono oggi: un monumento all’ansia, ma all’ansia combattiva. Probabile che, due minuti prima di morire, mi chiederò per l’ultima volta se ne sono capace. E finalmente la cosa sarà definitiva: non posso certo sottrarmi, aggiungerò come ha sussurrato mia madre, quando la pregavo di tenere duro, nei suoi ultimi giorni di vita». Istinto. «Direi che la politica internazionale soffre di conseguenze non intenzionali, ma le conseguenze ci sono. Non credo nelle grandi spiegazioni sistemiche e credo poco nei grandi disegni. Perciò che ho visto direttamente, ai tavoli dei vertici europei o nei consigli atlantici, penso all’opposto che le élite politiche occidentali manchino ormai di capacità di guardare lontano nel tempo: agiscono qui e oggi, per istinto più che sulla base di una valutazione razionale dei rispettivi interessi, sono vulnerabili a disparate pressioni interne, sentono il peso dei media e dell’opinione pubblica. Le decisioni collettive nascono anche così, per accumulazione di scelte temporanee di molti attori diversi, guidati in gran parte da logiche interne». Amato. Quelli che chiamano direttamente sul telefonino anche chi conta molto meno di loro (i grandi di prima categoria), e quelli che, pur non contando niente, fanno chiamare sempre dalla segretaria (fuori da ogni categoria). Giuliano Amato tra i primi, quando diventò Presidente del Consiglio (dopo le dimissioni di D’Alema seguite alla sconfitta delle amministrative della primavera del 2000), che la chiamò per chiederle di restare a Palazzo Chigi. Tremonti. Entrata nell’Aspen Institute nel 2001, su chiamata dell’allora presidente Carlo Scognamiglio, due anni dopo, subentrato nella carica Giulio Tremonti, sentendosi attaccata, chiarì che sarebbe rimasta a condizione di potere dire e scrivere quello che pensava. «Sarei rimasta e avrei scoperto le qualità di una persona che crede nelle idee e nello scontro intellettuale». Arroganza. «Mi chiedo spesso per quale diavolo di ragione mi sia trovata a lavorare per entrambi, per D’Alema e per Tremonti. Sembra quasi […] che io abbia dei cromosomi particolari, che mi permettono di coesistere con delle persone così, difficili, intelligenti e arroganti. Li trovo due persone coraggiose: il coraggio di non voler piacere a tutti i costi, in politica, è davvero coraggio. E li trovo in fondo abbastanza simili: l’arroganza è solo un volto esterno, il volto interno è quasi opposto, direi fragile […] Fragile in tutti e due i casi. Sono persone che possono trattare in modo arrogante solo un potente loro pari, anzi, si divertono a farlo; ma non li ho mai visti trattare nello stesso modo uno dei loro collaboratori. l’opposto della regola odiosa – forti coi deboli, piacevoli in pubblico – che vale per tanti politic». Condivisione. «Per me la politica estera dell’Italia ha una chance solo quando è sufficientemente condivisa, quando diventa una politica nazionale. Sarà per questo che non mi sento trasformista. E che, pur sapendo che sarò sempre di sinistra, qualunque cosa ciò voglia ormai dire, collaboro volentieri con gli uomini intelligenti del centro-destra italiano». Transizioni. La riduzione del potere economico degli Stati Uniti, un caso tipico degli inconvenienti del successo: «perché non c’è dubbio che la crescita di altre potenze, in parte autoritarie, è stata il risultato della diffusione dell’economia di mercato su scala globale, ossia di un obiettivo strategico primario degli Stati Uniti stessi. Che ha permesso di battere l’Urss, il principale rivale del secolo scorso, ma ha poi portato alla Russia di Putin; che ha permesso le riforme della Cina post-Mao, alla fine degli anni settanta, ma ha segnato il risveglio dell’Impero di Mezzo. Quel che si dimostra errata, è l’idea che la diffusione del capitalismo avrebbe anche prodotto una parallela espansione della democrazia: perlomeno in una fase transitoria, che non sappiamo ancora quanto durerà, il capitalismo rende più sostenibili le autocrazie, invece di indebolirle». Chiavi. «Quando abbiamo cominciato a incontrarci, era qualche mese fa, pensavo di non ricordare quasi niente. Si ricorda, dottore? Le scrissi che la mia vita mi sembrava passata in una mezza giornata. Oggi comincio a temere di ricordare anche troppo, a parte dove ho messo le chiavi» (fine).