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 2009  marzo 10 Martedì calendario

MARCO ACCOSSATO PER LA STAMPA


C’è una sola domanda che s’impone, mentre Giorgia lotta per sopravvivere in un letto di rianimazione. Chi? Chi si è occupato del delirio di un uomo che sentiva le voci, che amava i coltelli, li nascondeva sotto i vestiti, e con uno di questi, lungo 28 centimetri, ieri mattina ha distrutto una vita e una famiglia per fuggire da un ospedale. Chi sapeva di quel senso di persecuzione che lo ha schiacciato, e poche ore prima del raptus l’ha spinto addirittura in una caserma dei carabinieri, il luogo più ostile alla sua alienazione: «Sono in pericolo, mi cerca la ”ndrangheta, mi cercano gli extracomunitari. Vogliono farmi del male».
Chi? Nessuno ricorda il suo nome e il suo caso. Nessuno riconosce il suo volto, mentre scorrono le immagini dei telegiornali che raccontano il dramma di via Monterosa. Molte ore dopo l’omicidio, carabinieri, polizia e vigili urbani non sono riusciti a capire se questo fantasma nella città è seguito - o meno - dai servizi psichiatrici di un’Asl.
«Era in cura all’ospedale Martini», mormora qualcuno, mentre la vedova di Lorenzo Bollati, madre di Giorgia, si dispera davanti alla sala operatoria dell’ospedale San Giovanni Bosco dove lavora la cognata della vittima. Ma sono soltanto voci. Perché al responsabile dei servizi psichiatrici dell’Asl To 1, a quello del reparto di Psichiatria dell’ospedale Martini, e ai sei coordinatori dei distretti dove sono stati creati i servizi di Salute mentale, Antonio Olivieri è un nome che non dice nulla. Assolutamente nulla.
«Non è la prima volta che intervenivamo per calmarlo», raccontano i carabinieri. Non è la prima volta, dicono i vicini, che Antonio minacciava la madre, proprio come ieri, poco prima di uscire per trasformarsi in omicida. Odiava la madre, quando gli nascondeva i coltelli.
Un’ossessione. Olivieri - raccontano al bar che frequenta abitualmente - aveva spesso il coltello con sé. Coltello da cucina, manico nero, dodici centimetri di lama. Lo mostrava a tutti. «Ma non aveva mai fatto del male a nessuno». Incensurato. Fino a ieri, fino al raptus.
Il dottor Vincenzo Villari, primario di Pischiatria all’ospedale Molinette di Torino, è durissimo: «Troppi persone in queste condizioni sono sballottate da una parte all’altra: assistenti sociali, Asl, forze dell’ordine devono invece imparare a lavorare insieme». Un’accusa, ma anche un appello: «Dobbiamo imparare a cogliere i segnali di aiuto che queste persone ci lanciano ogni giorno. Invece, ognuno fa la propria parte, poi si ferma, e si giustifica dietro frasi inaccettabili tipo ”La legge non prevede...”, oppure ”Non è di mia competenza”. Se non vogliamo si torni a fantasticare di manicomi dobbiamo creare una rete più stretta per curare la sofferenza di queste persone e garantire la sicurezza dei cittadini».
Non serve un colpevole. Serve di più. Antonio era depresso, si lamentava di essere senza lavoro. Anzi: di non averne mai avuto uno stabile. Anche in questo si sentiva perseguitato.
«Stato confusionale», è scritto sul figlio dell’ambulanza del 118, che ha trasportato Olivieri dalla caserma di corso Giulio Cesare al pronto soccorso del San Giovanni Bosco. E’ la prima volta che il suo nome veniva registrato, qui al Dea. «Non c’era motivo di controllarlo a vista, non si trattava di un trattamento sanitario obbligatorio, e sul referto dell’ambulanza non si parlava di un paziente agitato o pericoloso per sé e per gli altri», mettono subito in chiaro in ospedale. Anche questo verrà accertato: notando il segno di ferite da coltello sulle braccia, all’ospedale sarebbe stato segnalato che si trattava di una patologia psichiatrica.
Oggi si cercherà tra le schede di migliaia di pazienti assistiti negli anni dagli psichiatri delle Asl di Torino. Forse spunterà una cartella clinica. Per ora, Antonio Olivieri è un uomo invisibile oppresso da paure. Omicida e vittima allo stesso tempo.

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NICCOLO’ ZANCAN PER LA STAMPA

Una lunga giornata difficile per i carabinieri di Torino, passata a ricostruire con precisione tutti i movimenti di Antonio Olivieri. Alla fine lo hanno arrestato, ma lo avevano davanti agli occhi già un’ora prima dell’omicidio. Questo è il tormento: si poteva evitare il sangue di via Monterosa?
«Crediamo di aver fatto più del nostro dovere», dice il comandante provinciale Antonio De Vita. Parla dopo essersi confrontato con i suoi uomini, dopo aver letto le carte e verificato personalmente i dettagli della storia. «Non c’erano gli estremi per l’arresto - spiega il colonnello - Olivieri era tranquillo, non dava segni di aggressività. Si era presentato da noi in stato confusionale. Potevamo lasciarlo uscire dalla porta principale, invece lo abbiamo affidato alle cure del 118». Il pm Andrea Bascheri, subito informato dei fatti, sembra confermare questo orientamento. Non c’erano margini di discrezionalità: passaggi obbligati con tragedia finale.
Il primo a vedere l’uomo che sta per trasformarsi in un assassino è il maresciallo Nicola Fierro, della caserma di corso Giulio Cesare. Sono le 12,10 quando si presenta davanti a lui un uomo sofferente. Ha la barba lunga di tre giorni, delira: «Sento le voci - dice - tutti ce l’hanno con me. La mafia mi perseguita, gli extracomunitari mi odiano. Guardi cosa mi sono fatto sulle braccia, maresciallo. Non ho avuto il coraggio di andare fino in fondo». All’altezza dei polsi ha lividi e tagli superficiali. In tasca tiene un coltello con il manico di legno, dodici centimetri di lama. Il maresciallo lo sequestra, firma immediatamente la denuncia a piede libero per porto abusivo di armi da taglio. Intanto chiama un’autoambulanza del 118. Sul primo referto c’è scritto: «Paziente in stato confusionale». Olivieri accetta il trasporto al San Giovanni Bosco. Tutto deve ancora succedere.
All’accettazione è registrato come «codice verde»: non grave, non urgente, può aspettare. Ma forse durante il viaggio si è perso un pezzo importante della storia: il tentato suicidio. Nessuno lo segue dal punto di vista psichiatrico. Olivieri resta in sala d’attesa come un paziente qualsiasi. Poi scatta all’improvviso. In fuga verso la rapina e la tragedia senza ritorno.
Qui c’è il secondo dubbio. Dove ha trovato il coltello da macellaio con cui ha colpito Lorenzo Bollati e sua figlia Giorgia? «Noi crediamo che se lo sia procurato durante quella mezz’ora d’attesa al pronto soccorso», dice il colonnello De Vita. L’alternativa è ipotizzare che l’avesse già addosso, dall’inizio della giornata. Quando Antonio Olivieri si era presentato a casa della madre, in via Baltea, dopo l’ennesima lite violenta. Ha suonato per mezz’ora il campanello, ha chiesto inutilmente ai vicini di poter passare dal balcone, quindi è sceso al bar e si è bevuto tre Campari con Gin. «Perchè esageri», gli ha chiesto il barista. «Ho sete da morire», ha risposto Olivieri.