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 2009  marzo 09 Lunedì calendario

SIVASSPOR, IL MIRACOLO CHE IMBARAZZA L’ISLAM


Per i loro tifosi sono gli Yigidolar, che in turco suona come gli intrepidi, per gli addetti ai lavori sono un mucize, un miracolo. Sta di fatto che il Sivasspor Kulübü, primo in classifica nella Turkcell Süper Lig, il campionato turco, sta facendo sognare da mesi il Paese della Mezzaluna, attirando simpatie di chi tifa altri club e anche di chi non ha mai guardato al calcio con particolare interesse. All’inizio, sulla sua impresa non avrebbe mai scommesso nessuno. Sivas, di origine greca e per tutto il Medio Evo crocevia di culture, è una cittadina di circa 300 mila abitanti nell’Anatolia centrale, non molto distante dalle coste del Mar Nero, famosa per i suoi monumenti ottomani, l’ambiente naturale circostante e per essere il capoluogo di una delle province più conservatrici del Paese.
Eppure adesso questo centro industriale passerà alla storia, per lo meno quella del calcio turco, per aver sfidato le grandi del campionato tutte di Istanbul: Fenerbahce, Galatasaray e Besiktas, che hanno vinto 44 campionati su 50 (gli altri 6 sono andati al Trabzonspor, l’ultimo nel 1984). Fondato nel 1932, il Sivasspor approdò al calcio professionista solo nel 1967, con una sede al numero 1 dell’Osman Pasa Caddesi, e un affitto simbolico di appena 50 lire turche. Nel 2005 il grande passo con l’approdo alla Süper Lig, grazie a un nuovo management che ha investito nell’acquisto di giocatori stranieri e di un allenatore, Bülent Uygun, ex giocatore del Fenerbahce, che in pochi anni ha messo insieme una squadra veloce e con un centrocampo che, per dirla con i giornalisti turchi, «a tratti fa paura».
Sembra quasi impossibile che una storia sportiva fatta di sogni e buona volontà come questa sia stata intaccata dall’ombra dell’odio e della guerra. Eppure nelle scorse settimane, nel pieno dell’ultima crisi sulla Striscia di Gaza e durante la reazione di Israele all’attacco da parte di Hamas, gli Yigidolar sono balzati all’onore delle cronache perché in rosa c’è un giocatore di origine israeliana, Pini Balili, nato a Tel Aviv ma naturalizzato turco. Il caso è esploso quando, nella partita contro il Galatasaray, un suo compagno di squadra, Ibrahim Dagasan, ha piantato nel cerchio di centrocampo la bandiera palestinese. Una ferita per Balili arrivata in un momento in cui tutta la Turchia, erano schierata contro Israele, soprattutto per il coinvolgimento di civili nella rappresaglia contro Hamas.
«Sono solo un giocatore - aveva ripetuto il centrocampista fino alla nausea ai giornalisti, che gli chiedevano quale fosse stata la sua reazione negli spogliatoi al gesto di Dagasan - gli ho chiesto perché lo ha fatto ma non ne voglio parlare». Un silenzio dietro il quale l’attaccante si è chiuso anche per difendersi da eventuali rappresaglie mediatiche: nato israeliano, Balili ama così tanto la Turchia da aver chiesto la cittadinanza nel 2007. Prendere posizione una questione politica così virulenta sarebbe potuto essere controproducente: «Qui so che sono molto amato - aveva detto uno sfinito Balili al quotidiano Hürriyet -. Ho chiesto di diventare cittadino turco e ho anche pregato il prefetto di Sivas di accelerare le pratiche il più possibile. Mi sono sempre trovato bene con la gente. Adesso vivo con inquietudine. Ho ricevuto telefonate nelle quali mi dicevano di stare attento. Ma io sono solo un giocatore. Ogni persona ha le sue idee e io voglio la pace non solo per la Palestina, ma per tutto il mondo».
Un incubo che, forse, sta finendo solo adesso, anche grazie agli importanti obiettivi posti dal campionato e dalla società che ha fatto quadrato attorno al giocatore per proteggerlo dal clima che si era venuto a creare. Ma il ricordo di quello che è successo difficilmente lascerà tranquillo Pinie. «Ringrazio chi mi è stato vicino - aveva detto subito dopo il gesto di Dagasan -. Quel giorno anche lo stadio era pieno di bandiere palestinesi. Io sono israeliano, ma sono ugualmente contro questa guerra e non voglio che venga ucciso un solo palestinese».
Adesso Pini, che nel 2007 venne allo scoperto («amo così tanto questo Paese che quando sento l’Istiklal Mars - l’inno nazionale - mi commuovo», aspetta che la Turchia gli dimostri di ricambiare quella passione. Da cittadino della Mezzaluna si chiamerà Atakan e prenderà come cognome Uygun, lo stesso del suo allenatore: per lui è come un fratello. Strano tipo questo Uygun: quando ancora giocava, faceva il saluto militare dopo ogni gol segnato. Abitudine che ha trasmesso anche ai suoi giocatori.
 come se lo spogliatoio non lottasse solo per la Turkcell Süper Lig, ma per Sivas stessa. Questa città e la sua squadra sembrano essere irrimediabilmente legati ad atti di violenza. Nel settembre del 1967, durante una partita contro il Kayseri Erciyessport, un violento scontro fra le due tifoserie provocò 40 morti, mandò in ospedale 300 persone e scrisse la pagina più tragica nella storia del calcio turco. Gli scontri si protrassero anche nei giorni successivi con una tale violenza che molte persone abbandonarono le proprie case per tornarci solo a tafferugli sedati. Nel 1993 all’Hotel Madimak 37 persone furono massacrate da un gruppo di fedeli ultraortodossi per il solo fatto di appartenere alla confraternita alevita, che pratica un Islam più moderato rispetto a quello ufficiale. Il fatto viene oggi ricordato come Sivas Katliami, il massacro di Sivas. Alle elezioni amministrative del prossimo 29 marzo, Sivas sarà l’unica provincia dove l’Akp, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, di orientamento islamico-moderato, avrà come sfidante il Büyük Birlik Partisi, ossia l’ala più oltranzista e xenofoba della destra islamica turca. Storie di odio e intolleranza che hanno poco a che vedere con la marcia trionfale dello Sivasspor e che i giocatori, Balili per primo, vorrebbero lasciarsi alle spalle. Perché questa deve essere una storia diversa. Il presidente della squadra, Mecnun Otyakmaz, vola alto. La sua squadra deve arrivare sul tetto d’Europa. Da lì l’eco della guerra si sente molto meno. Ed è più facile dimenticare quello che è successo.