Stefano Semeraro, La stampa 9/3/2009, 9 marzo 2009
DA FALCAO ALLA SELES I CAMPIONI IN LOTTA CON I BUCHI DELL’ANIMA
Capita anche ai neuroni migliori. A quelli allenati alla perfezione, ma che all’improvviso si bloccano come un computer che va in bomba, come una batteria sovraccarica. A volte riprendono a trasmettere, come e meglio di prima. Altre restano in corto circuito tutta una vita.
Campioni che si si inceppano per ansia da prestazione, per paura o per rabbia. Paulo Roberto Falcao che davanti al dischetto fatale rinuncia a tirare il rigore nella finale di Coppa Campioni, e manda Graziani sul patibolo e la Roma fuori dalla storia. O Roger Federer che va in tilt davanti all’arci-rivale Rafael Nadal, e piange, si dissipa, perde contatto con il demone splendido che lo abita. Hacker di se stessi lo si può essere da sempre, o diventare per quei pochi centimetri, per quei pochi secondi che contano. E che faticheranno a tornare, o non torneranno mai più.
Joel Gaspoz nell’87 sciava da dio dei paletti, faceva paura a Zurbriggen, mentre stava per prendersi l’oro ai Mondiali di Crans Montana cadde a pochi metri dal traguardo. Agonisticamente, non si rialzò più. Un blocco, la paura di ripetersi nell’errore e nel ridicolo. Come Thomas Bjorn, golfista svedese che, in testa alla 16ª buca dei British Open 2003, finì nella sabbia, e perse il titolo impiegando tre colpi per togliersi dal buco. E molto, molto di più per convincersi, con l’aiuto di uno psicologo, che quella disgrazia assurda non si sarebbe ripetuta. Robert Erlacher, sciatore azzurro dell’era Tomba vomitava e sbiancava le notti prima delle gare, Asafa Powell, l’amico/nemico di Usain Bolt ha sempre saputo come staccare record mondiali, ma davanti alla corsia del destino, ai Mondiali o alle Olimpiadi, incespica su se stesso.
« un eccesso di mentalizzazione», spiega Beppe Vercelli, lo psicologo dello sport che segue Giorgio Rocca e il campione di Le Mans Dindo Capello, che è stato al fianco di Antonio Rossi e Iosefa idem. «Mente e corpo vanno fuori sincrono. Non è strano, ma possibile e normale, quando succede ai fuoriclasse, perché di solito i campioni sono più nevrotici degli altri. L’ansia in fondo serve a mantenere il contatto con la realtà, a farci preoccupare: è un assist a livello evolutivo». L’ansia è il led che si accende quando dentro la mente c’è troppa energia. «Si tratta di disperderla, o di incanalarla. A volte si ottengono risultati sorprendenti». Le manie e i rituali pre-gara di Valentino Rossi sono esorcismi contro il panico, ma c’è anche chi dalla paura di vincere, o dall’angoscia di perdere, dal terrore vertiginoso di non essere all’altezza, non si è più ripreso.
Arrigo Sacchi per troppo stress ha dovuto lasciare la panchina, mentre Buffon la depressione l’ha solo corteggiata. Petra Kronberger, Petra la dolce, appese gli sci al muro perché non si sentiva abbastanza cattiva per gareggiare. Guillermo Coria non mai uscito da quella finale persa per crampi e per «miedo» con Gaston Gaudio, al Roland Garros 2004. E Gaudio, forse, non si è più riavuto da quella vittoria, che sapeva di non meritare.
Boris Becker, al massimo del successo, si scoprì una sera in equilibrio instabile sul balcone di una camera di hotel: l’ansia di dover essere sempre e comunque Boris Becker, lo stava spingendo un passo di troppo nel delirio. Niki Lauda, dopo il Nurburgring, si scoprì esposto all’ansia di morire, rifiutò la pioggia del Fuji ma poi tornò e fu di nuovo mondiale.
Monica Seles, dopo la coltellata in campo ad Amburgo, nel ’93, impiegò due anni a suturare il taglio nella psiche, il senso di minaccia perenne. Jana Novotna, 5 anni dopo l’incredibile blocco nervoso nella finale di Wimbledon ’93, fu capace di esorcizzare la vergogna e il pianto, e vincere sullo stesso campo. Il campione di salto dal trampolino Sven Hannawald, o il ciclista Frank Vandenbroucke, nel buio che circonda la vittoria si sono consumati fino all’anoressia. Dall’ansia «si salva chi ha la forza di farsi aiutare», dice Vercelli. Ma non tutti sanno essere fuoriclasse anche nel mostrarsi deboli.