Piero Colaprico, la Repubblica, 7/3/2009, 7 marzo 2009
IL GIALLO DEL DNA - I
carabinieri dei Ris, i poliziotti della Scientifica: a chi li conosce da vicino fanno buona impressione. Freddi, razionali e pure dotati d´abilità manuale. Esperti di fotografia. Quasi tutti grandi lettori di libri e saggi, non solo di fascicoli, qualcuno parla un paio di lingue straniere. Ma ormai, quando arrivano sulla scena del crimine, in tuta bianca e valigetta in cerca di Dna, sangue e impronte digitali, si accorgono che il clima intorno a loro è cambiato. Troppi flop, troppe polemiche, tantissime incertezze: «La vera verità sulle indagini della Scientifica è presto detta. Noi lavoriamo per il pubblico ministero, accertiamo le prove e siamo tutti professionisti. Abbiamo solo una risposta: lavoro e silenzio».
Però soffrono. Premono anche dietro le quinte per avere al più presto una banca dati del Dna. Spiegano che «l´eterno ritorno del sopralluogo», da Cogne a Perugia a Garlasco, non dipende da loro e da qualche sbaglio nelle analisi.
«Ma dalle contestazioni della difesa e dalle emergenze che ti portano le indagini tradizionali e che vanno verificate. Per noi, quando un luogo è sotto sequestro, stop. Se ci vai un´ora dopo o dieci giorni dopo, non cambia nulla. Le cose - si lamentano - si possono fare con calma, i tempi della giustizia non sono certo i tempi della televisione».
Luminol, lampada multifrequenza, raggi ultravioletti, pinze e garze sono le loro armi, anche se tante volte il «giallo» resta senza soluzione, senza colpevoli, senza perché. E restano gli interrogativi su come funziona «davvero». Soprattutto in questi giorni, dopo la violenza carnale nel parco romano della Caffarella, con la vittima di appena quattordici anni. Con il test del Dna sui due presunti colpevoli che contraddice indizi e testimonianze e confessioni. Con Karol Racz, uno dei due romeni in carcere, il quale si proclama innocente e fornisce alibi: è uno che può guardare con gratitudine alle nuove tecniche d´indagine. Mentre altri che forse l´avevano fatta franca e avevano preconfezionato un colpevole, maledicono tamponi e analisti. Vedremo come andrà a finire, ma intanto «le nostre procedure sono le stesse di tutta Europa, anzi ogni anno c´è un meeting internazionale e ci passiamo le informazioni sulle nuove tecniche, in totale sinergia», spiegano i detective scientifici. Il Dna è sempre il re delle «tute bianche». Per lo meno da quando si è scoperto che le «informazioni genetiche» contenute nell´acido desossiribonucleico potevano fornire «informazioni oggettive» sull´identità di assassini, stupratori e rapinatori con maggiore attendibilità di un vecchio confidente di questura.
«Noi - dice l´investigatore dei Ris - badiamo ai "loci". Non possono esserci due persone che li abbiano uguali, a parte i gemelli omozigoti. Il concetto è lo stesso delle impronte digitali, che come si sa sono diverse l´una dall´altra. Ma mentre la corte di cassazione ha stabilito che un´impronta appartiene a una persona quando coincidono sedici punti, sul Dna ancora non c´è una sentenza. Noi tecnici riteniamo che diciotto loci uguali identificano un essere umano senza il minimo dubbio». La prima condanna ottenuta in tribunale decifrando alcune minime parti dei filamenti c´è stata nel 1988, ventun´anni dopo qualche dubbio sul Dna resiste: ma, in effetti, più i biologi lo studiano, più emergono elementi utili ai detective.
Non è estrarre il Dna la parte più difficile del «lavoro». Il difficile è trovarlo: «Essenziale è bloccare la scena del crimine, bloccando l´accesso agli altri. Poi occorre "cristallizzarla", e cioè fotografarla e filmarla, così com´è, senza toccare, spostare, quasi senza fare aria».
Con le tute indossate per evitare inquinamenti, la caccia ai «reperti» procede prima a occhio nudo (sangue, macchie di sperma, saliva), poi con i reagenti (il luminol evidenzia il ferro, quindi anche il ferro contenuto nei globuli rossi del sangue) o con le lampade speciali.
Con la «luce blu» che individua le fluorescenze create dalle tracce organiche nei luoghi - tessuti, tappeti - dove sono state assorbite. Ogni volta che si trova «qualcosa», si rifà «un´immagine», una foto o un film.
Se la sostanza organica è fresca, il prelievo si fa con una garza sterile. Se è secca, «la garzettina viene bagnata con acqua distillata e poi imbibita nella macchia. Il corpo umano - spiegano i tecnici - è un organismo in continua trasformazione, rilascia di continuo cellule con il nucleo. Il nostro compito è "fermarle" e trovare quelle connesse alle scene del crimine. Alcune collocazioni di cellule non sono spiegabili, quindi bisogna trovare una ragione sul perché erano dove non avrebbero dovuto essere».
A differenza di quello che si vede nella gran parte dei telefilm, le bustine di plastica trasparente inquadrate in primo piano con un capello o un oggetto insanguinato, si usano poco, quasi zero. «E quelle che si usano vengono tutte bucate per far passare l´aria. Il materiale repertato, perché non si biodegradi, viene messo in contenitori di carta, che traspirano. Altrimenti si potrebbero creare delle muffe».
Ci sono ditte specializzate che riforniscono i vari ministeri. Ogni oggetto ha l´involucro più adatto. Ma l´arte di arrangiarsi sopravvive: «Siccome i fondi per le forze di polizia sono quello che sono, ognuno di noi fa di necessità virtù. Le pistole che troviamo sul luogo del delitto sa spesso come le portiamo via? Nelle scatole di scarpe che ci prepariamo a casa, con i buchi fatti apposta per la circolazione dell´aria... Oltre alle scatole delle scarpe, qualche volta usiamo buste da lettera... Non sempre c´è in deposito il materiale che serve». Vabbè, tanto si sa che manca anche la benzina per le volanti, mancano i soldi degli straordinari, manca la carta delle stampanti, chiunque faccia lo «sbirro» in Italia sa che ti manca sempre qualche cosa anche se stai dietro a Bernardo Provenzano.
Altro luogo comune, il sudore. Basta una goccia che scivola dalle mani strette in tensione nervosa e l´assassino, si dice, è perso: «Ma no, il sudore non serve a trovare il Dna, serve solo se ci sono cadute delle cellule epiteliali», e cioè un frammento di pelle. Mentre è sui capelli che si stanno concentrando oggi gli sforzi degli scienziati-investigativi.
Come ognuno di noi tristemente s´accorge, ogni essere umano perde decine di capelli al giorno: sono capelli cosiddetti morti. Sinora il Dna, con grande fatica, si poteva estrarre solo dai capelli con il bulbo, e cioè «strappati», non caduti. «Sinora lavoravamo sul nucleo nucleare, ora anche sul mitocondriale. Costa, è complicato, ma si può arrivare al Dna da peli e capelli senza bulbo. Questi sono i reperti tra i più delicati, usiamo pinzette di precisione e appositi cartoncini».
Qualche anno fa, forti di queste tecniche nuove, le «tute bianche» di polizia e carabinieri sembravano rappresentare la panacea di ogni indagine, quasi un lungo addio ai marescialli che avevano nella caparbietà, nell´intuito e nell´esperienza i loro utensili migliori. Dopo alcune sconfitte (basta un nome: Unabomber); varie indagini mai chiuse con una certezza (per esempio: delitto Olgiata, omicidio Simonetta Cesaroni); dopo le controversie con gli avvocati (questi ultimi non sempre mossi dalla ricerca della verità processuale); questi superpoliziotti sono tornati «normali». Sanno loro per primi che le inchieste giudiziarie non sono un legal thriller, le vite delle persone non sono un noir e le indagini non corrono veloci come le pagine di un giallo-procedural.
Ma questo concetto, le tante lacrime che accompagnano le storie del crimine, le disillusioni e l´amarezza, qualche gioia e qualche fatica premiata sono sempre più difficili da far capire nella loro reale portata. Soprattutto a chi, stando davanti alla tv, o bevendosi gli slogan politici sulla sicurezza nelle città, crede che, oplà, ogni caso si possa risolvere: in un´ora, pubblicità compresa.