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 2009  marzo 07 Sabato calendario

L’USCITA D’EMERGENZA CHE L’EUROPA NON HA

La probabilità che un aereo di linea debba tentare un ammaraggio di fortuna è risibile. Ma i progettisti tengono ugualmente conto di questa evenienza, gli equipaggi sono addestrati ad affrontarla, e nessuno li accusa di allarmismo se spiegano ai passeggeri come indossare il salvagente.
La probabilità che l´attuale recessione porti alla crisi finanziaria di uno Stato europeo e, per contagio, di Eurolandia, è risibile. Ma sarebbe tranquillizzante sapere che i Governi hanno un piano di contingenza. La crisi non è un fenomeno di isteria collettiva: parlarne sarebbe un segno di consapevolezza, non di irresponsabilità.
Tra crollo delle entrate fiscali, ammortizzatori sociali, sostegno alla domanda, la gravità dell´attuale recessione avrà un effetto devastante sulla finanza pubblica. E bisogna aggiungere la crisi bancaria, che di fatto sta gradualmente trasferendo il rischio di credito sui conti pubblici (poco importa con quale meccanismo): gli Stati quindi si dovranno sempre più far carico del costo di sofferenze e svalutazioni. Poiché la dimensione degli attivi bancari eccede ovunque il Pil (dal 110% di Italia e Grecia, al 180% di Irlanda e UK), le perdite possono avere un grande impatto sui bilanci degli Stati.
La garanzia del debito pubblico è data dalla capacità dell´emittente di riscuotere le imposte. Se gli investitori percepiscono che il costo sociale di aumentare le tasse diventa proibitivo per un Governo, diserteranno in massa il suo debito, facendolo precipitare in una crisi di liquidità. Esattamente come è successo per le banche. Ma per gli Stati sovrani non c´è la banca centrale; e in Eurolandia qualsiasi forma di salvataggio è proibita. A uno Stato che viene tagliato fuori dal mercato dei capitali non resta che il default; e a quel punto, gli converrebbe uscire dall´euro, per cercare il rilancio dell´economia con una svalutazione. Per l´Europa sarebbe la catastrofe. Esiste un piano di contingenza?
Al problema delle finanza pubbliche di alcuni paesi di Eurolandia, si sta sommando quello dell´Est Europa, una crisi che somiglia terribilmente a quella asiatica del 1998: massicci afflussi di capitali esteri che finanziano un periodo di forte crescita; che si trasforma in forte contrazione, quando arriva la recessione globale (che in Russia si aggiunge alla caduta delle prezzo delle materie prime). Crolla il reddito, aumentano le insolvenze, i capitali esteri si ritirano, aggravando la contrazione. Il tasso di cambio si svaluta, le insolvenze si moltiplicano perché molti residenti sono indebitati in valuta, la fuga dei capitali accelera, acuendo la crisi valutaria. Gli interventi sono inutili: la Russia ha bruciato oltre 200 miliardi di riserve nella vana difesa del rublo.
A differenza della crisi asiatica, la quasi totalità dei capitali esteri nell´Europa orientale viene da Eurolandia e Scandinavia. Sono capitali privati che hanno investito nei servizi, industria e soprattutto banche; e che ora rischiano perdite gigantesche. Per le banche, il potenziale buco rischia di essere eccessivo. L´esposizione bancaria nei confronti dell´Est Europa è infatti pari al 55% del Pil in Austria, 23% in Belgio, 7% in Italia: in caso di grave recessione (con sofferenze stimate intorno al 15%), gli Stati di Eurolandia potrebbero essere chiamati ad assorbire, con i soldi dei propri cittadini, le perdite delle loro banche nei paesi dell´Est. Lasciare le banche dell´Est al loro destino non eliminerebbe il costo della svalutazione degli investimenti fatti. E c´è il rischio che qualche paese, di fronte alla crisi valutaria, imponga controlli ai movimenti di capitale, e magari il rimborso in valuta locale dei debiti esteri dei cittadini. In ogni caso, un disastro per le banche di Eurolandia.
Esiste un piano di contingenza? Ho l´impressione che, impegnati a disquisire su piano Obama, mutui subprime e fine del capitalismo anglosassone, ci stiamo dimenticando della voragine che si sta aprendo nel giardino dietro casa.