Rina Gagliardi, Il Riformista 06/03/2009, 6 marzo 2009
Rina Gagliardi per il Riformista Come può un paese civile fare a meno di una efficiente raccolta differenziata dei rifiuti? Da anni, questo era il pensiero dell’ambientalista convinto
Rina Gagliardi per il Riformista Come può un paese civile fare a meno di una efficiente raccolta differenziata dei rifiuti? Da anni, questo era il pensiero dell’ambientalista convinto. Da anni, come ambientalista convinta, lamentavo l’italica arretratezza e invidiavo i cittadini europei e americani che hanno conquistato questo diritto e questo servizio. In teoria, naturalmente, e perfino con un po’ di passione intellettual. Non ho cambiato posizione, in teoria.. Ma da quando, nel mio quartiere – Trastevere cuore di Roma – è cominciata la raccolta, appunto, differenziata, la mia vita quotidiana è diventata un piccolo inferno. Al punto che avverto il bisogno di narrare brevemente la mia triste esperienza, a mò di monito e avvertimento.. Tutto è cominciato un po’ meno di un mese fa. In un pomeriggio qualunque, gli uomini arancioni dell’Ama (che ora scorazzano a tutte le ore, su motociclette nuove di zecca, nei vicoli del rione) ci hanno recapitato a casa un nutrito kit di sacchi colorati. La casa, già sommersa di libri, carte e cartuccelle, non ha accolto con letizia questa nuova immissione: sacchi marroncini per la mondezza ”organica”, sacchi blu per plastica e vetro, sacchi bianchi per la carta – e grigi per i ”non riciclabili”. Fin qui, comunque tutto bene: anzi, eravamo quasi entusiasti e comunque pieni di buona volontà. Abbiamo pur sorvolato sul carattere un po’ burocratico della consegna, nonché sull’assenza totale di informazioni dirette – verbali, umane. Abbiamo notato, con benevola condiscendenza, che i sacchetti marroncini, quelli in cui vanno a finire gli avanzi di cibo, sono di dimensione piccolissima, e che gli altri, all’opposto, sono in formato gigante. Sarà perché lì all’Ama ancora pensano che a Trastevere abitano molti intellettuali, e che gli intellettuali mangiano poco e leggono molto? Mah, quisquilie. Ah, gli orari: ciascuno di questi sacchi, a giorni alterni, va portato (’esposto”) sulla strada, davanti al proprio portone, un po’ prima delle sette del mattino: e se ti beccano fuori orario, metti alle sette e mezzo, sono multe salate e partacce. Ancora siamo agli inizi: tutto sta a d abituarsi, mi dicevo, e, diamine, ci abitueremo. Intanto, però, nel giro di pochi giorni l’entusiasmo svaniva: al suo posto, un sentimento crescente di perplessità. Di egoismo? Ma stava iniziando, nei fatti, per me, un vero e proprio lavoro. Deciso da altri, ansiogeno e ovviamente reso a titolo del tutto gratuito. Primo problema: questa benedetta raccolta costa un mucchio di tempo, si mangia i minuti, i quarti d’ora, le mezz’ore. E sì che la mia è una famiglia piccola, duale, sobria. Il fatto è che le merci sono un infinito mondo di involucri: ecco una cosa su cui, prima, non ci sofferma con la dovuta attenzione. Ed ecco, di botto, la montagna di cellophane, stagnole, carte plasticate, cartoni, cartoncini, e così via, che tutto avvolge. Ma ora tutto va scartato, soppesato, appallottolato e infine dirottato nel sacco giusto – se non ora quando? E dove? Ora, appunto, un pacchetto di sigarette (vuoto) va nel sacco bianco, ma il cellophane che lo avvolge e la stagnola che vi sta dentro, invece, vanno nel sacco blu. Presto tutto questo sarà un banale automatismo. Presto quando? Ho la ferma convinzione che da quindici giorni passo tutto il giorno a occuparmi di involucri. La vita è un involucro, come diceva il grande Calderon de la Barca Seconda fatica: la difficoltà di riconoscimento immediato delle categorie ”amiche” (nel senso dell’Ama). Finchè si tratta di distinguere i giornali dalle bottiglie, elementare, Watson. Ma non è mica vero che i confini tra carta e plastica, tra carta e rifiuti organici, tra plastica e cibo, siano sempre così chiari. Incertezze ”zone grigie” continuano cioè a moltiplicarsi. . Giorni fa, ho fissato per cinque minuti buoni un vassoietto di polistirolo sul quale fino ad allora aveva abitato un pezzo di stracchino, per altro avvolto da uno strato di cellophane e da uno, più esterno, decisamente cartaceo: ma tu, vassoietto in cerca del tuo sacco, sei fatto di carta o di materiale plastico? E, giacchè sei cosparso di residui organici (lo stracchino, si sa, è un formaggio appiccicoso), non sarà che sei destinato ai rifiuti organici? Provare per credere: un’ansia sottile e diffusa sale dal fondo delle tue viscere, di fronte a questa e a decine di consimili interrogazioni. Ma, soprattutto, c’è da fronteggiare la complessità del mondo (vedi la voce alla nota sofisticata teoria): insomma, ci sono (tante) più cose in cielo e in terra di quante non ne sappia la nostra Azienda Ecologica, Dove si buttano un paio di calzini bucati, un vecchio pettine di legno, una statuetta di gesso rotta, un quadretto commisto di carta e vetro? Dove vanno a finire i mozziconi delle sigarette? Dove sistemo quel vecchio orologio a cucù, che non funziona più, e che nessuno mi vorrà ritirare in quanto ”oggetto ingombrante”? L’Ama è categorica: il mondo si divide in quattro, la vecchia mondezza ”generalista” non esiste più. Consegnata agli archivi della storia. Pensavo di cavarmela col quarto sacco, quello dei ”rifiuti non riciclabili”, ma qui si sfiora il dramma. Ho telefonato all’Ama per avere qualche delucidazione, e una gentile signora mi ha spiegato che essi corrispondono, per esempio, ai pannolini. Alla mia obiezione che in casa mia non ci sono né bambini né incontinenti ha risposto, con parole formalmente ineccepibili, che a lei, di tutto ciò, non gliene fregava assolutamente nulla. Le ho dato, sinceramente ragione. Poi, mi sono accorta che eravamo entrambe precipitate in un racconto di Jerome K.Jerome e mi son sentita come quel tipo che va dal medico, legge un’Enciclopedia sanitaria, indi si precipita sul lettino gridando: ”Dottore, non ho il ginocchio della lavandaia!”.Non Ma so che presto lo avrò. Resta che io non ho ancora capito che cosa siano i rifiuti ”non riciclabili”: li cerco con angoscia crescente, e non li trovo. E mi sento in colpa. Sono una cittadina pressoché fallita, e quei sacconi grigi inutilizzati, sprecati sono la prova lampante del mio fallimento. Se i rifiuti sono la ”nostra” scoria segreta, il lato oscuro di cui liberarsi, ma anche l’altra faccia della dialettica necessaria del ciclo vita-morte-vita, ebbene, ci dev’essere qualcosa in me, nelle profondità del mio equilibrio, che non funziona. O non funziona più, come la sinistra. Come i nostri (e i miei personali) eccessi di ideologia. Credetemi, la mia vita quotidiana sta diventando davvero cupa. Sere fa, al termine di una delle ormai consuete giornate dedicate a inseguire carte di caramelle plasticose, e tetrapak ambigui, mentre, quasi con i sudori freddi, recuperavo dal sacco della carta un tovagliolo ”sbagliato” (non doveva andare lì, in quanto era un tovagliolo ”stampato”, come avvertivano severamente le istruzioni), mentre ripulivo con cura ex-scatole di tonno ed ex-vasetti di maionese, mi è tornao alla memoria il porta-a-porta della mia infanzia. Gli spazzini (allora si chiamavano così, prima di diventare, con classica operazione di semantica dell’eufemismo, prima ”netturbini” e poi ”operatori ecologici”) si facevano le scale ogni mattina, bussavano a tutte le porte, ritiravano un unico sacco di mondezza, scherzavano con l’esercito di casalinghe con le quali, intanto, avevano costruito vere amicizie, consegnavano un nuovo sacco – e se ne andavano stanchi, tra una bestemmia toscana e l’altra, ma, chissà, felici. Era tutto straordinariamente più semplice e più ”scientifico”. E ora? Qui e ora? Con chi me la prendo? Con il capitalismo, certo, con la giunta di Alemanno, certo, con quel signore dei rifiuti che mangia la coda alla vaccinara, certo, e ingrassa sulle mie quotidiane fatiche di Sisifo. Quasi quasi, non ci sto più. Mollo. Continuando a dichiarare in ogni dove, s’intende, che la raccolta differenziata è una necessità assoluta. Forse.