Gabriele Beccaria, la Stampa 05/03/2009, 5 marzo 2009
LA GRANDE BUFALA DEL DNA ROMENO
Doppia elica? Libretto di istruzioni? Carta di identità biologica? Dimenticate tutto. Un Premio Nobel, David Baltimore, sostiene che il Dna «è una realtà oltre qualsiasi metafora». Le metafore, infatti, hanno il dono di semplificare, mentre i 3.2 miliardi di «basi» che ci portiamo nelle cellule sono i tentacoli di una struttura immensamente complicata e che si ingigantisce sempre di più, via via che gli scienziati la esplorano. Al punto che un vate del settore, l’inglese Denis Noble, sceglie la provocazione: è meglio cominciare a pensare al Dna come a un ponderoso libro di ricette, sul quale l’ambiente mette le mani in continuazione e prova i suoi esperimenti, nel bene e nel male.
Ecco perché le certezze sul Dna sono poche e gli interrogativi si espandono. Qualche giorno fa ha fatto discutere il verdetto della «National Academy of Sciences» americana, secondo il quale le adrenaliniche operazioni da «Csi» adottate sulle scene dei crimini sono tutt’altro che perfette, se si escludono i successi raggiunti con il test del Dna. «Il test? Al momento non c’è nulla di migliore», giura un pioniere di queste tecniche, Paul Ferrara, direttore del Dipartimento di scienze forensi della Virginia. Ma - deve riconoscere - l’efficacia è circoscritta alla comparazione classica, quella, per esempio, tra l’analisi delle tracce di saliva lasciate su un mozzicone e i geni del sospettato. «E’ come mettere accanto due codici a barre e osservare le corrispondenze», spiega Paolo Vezzoni, genetista del Cnr. La scienza del Genoma è nitida come la legge di gravitazione.
Peccato che il Dna sia una macchina biologica troppo sofisticata per non suscitare controversie scientifiche e polemiche, dalla violazione della privacy fino al ritorno di un becero razzismo. Un caso è emblematico: una società della Florida - la DnaPrint Genomics - ha lanciato un esame di «inferenza razziale»: sostiene di aver creato una banca dati di varianti per risalire alle origini razziali di un criminale. Di uno stupratore aveva realizzato questo identikit: «85% africano sub-sahariano, 12% europeo e 3% nativo-americano».
E’ l’alba di una prassi investigativa futura o una quasi-bufala, con l’ulteriore pericolo di essere socialmente deflagrante, come accusano molti neri d’America? «E’ certo che oggi nessuno può pensare di identificare la nazionalità di un profilo genetico - spiega Guido Barbujani, genetista e professore all’Università di Ferrara -. Sostenere che dai geni degli stupratori del Parco della Caffarella si desuma che fossero romeni è una falsità evidente». Nessuno sarebbe così ingenuo da cercare la firma genetica della nazionalità. Protagoniste, semmai, sono le «varianti genetiche» dei ceppi di popolazioni da un continente all’altro.
Ha cominciato Luigi Luca Cavalli Sforza e si prosegue con programmi ambiziosi, tipo il Genographic Project: un obiettivo è decifrare l’orologio molecolare dei mitocondri e scoprire le migrazioni dei nostri antenati. Molti segreti sono ancora sepolti nel Dna.