Giorgio Ferrari, il Manifesto 1/3/2009, 1 marzo 2009
AFFARONI NUCLEARI
La scelta del ritorno italiano al nucleare è tutta ideologica e non ammette alcun ragionamento. Qualora ci si provasse, sorgerebbero subito non meno di sei problemi di difficile soluzione. Taglia, tariffe, tipo di reattore, localizzazione, le tecnologie. E, naturalmente, chi paga?
La prima impressione dopo l’annuncio dell’accordo Berlusconi-Sarkozy sul nucleare è che Berlusconi abbia voluto forzare i tempi (al parlamento, ai tecnici, alla stessa Enel) per presentarsi al prossimo G8 che si terrà in Italia come l’unico capo di governo al mondo che, in piena crisi economica e finanziaria, annuncia investimenti nel settore nucleare ordinando la costruzione di ben quattro centrali. Non è una mossa da poco ma, dietro il battage pubblicitario, le cose non stanno proprio come sembrano. L’accordo tra Enel e Edf non prevede di costruire centrali, ma di eseguire lo studio di fattibilità per 4 impianti da localizzare in Italia e di finalizzare progetti e assetti societari entro 5 anni: un accordo di partenariato industriale che nasce da un protocollo d’intesa tra due paesi e come tale va esaminato.
Scelta del reattore Sotto il profilo tecnico la scelta di costruire in Italia 4 unità da 1.600 Mw è sconcertante. Il progetto francese Epr non è collaudato in quanto il primo impianto di questo tipo è in costruzione ad Olkiluoto in Finlandia ( ha due anni di ritardo e molte non conformità); e non è stato ancora licenziato (validato) dall’ente di sicurezza statunitense (Nrc Nuclear Regulatory Commission) ma solo dall’ente di sicurezza francese.
La taglia (1.600Mw) è decisamente scomoda da gestire, sia per i problemi legati al raffreddamento (maggior consumo di acqua) e il gigantismo dei componenti principali (vessel, turbine, pompe, alternatori, torri di raffreddamento ove previste), sia per l’adattamento alle esigenze della rete elettrica italiana che mal sopporta i distacchi improvvisi di carico (ricordate i due black out del 2003?): ogni centrale di questa taglia rappresenta circa il 3% dell’intera potenza richiesta dalla rete. Non è un caso che negli Stati Uniti (che pure hanno una potenza installata 6-7 volte superiore alla nostra!) la taglia massima dei nuovi reattori in costruzione non supera i 1.300 Mw.
Effetto sulle tariffe. Non c’è da aspettarsi una diminuzione delle tariffe elettriche (che sono già le più alte d’Europa e fino al 40% superiori alla media europea): anzi, poiché il ddl Scajola prevede di equiparare il nucleare alle energie rinnovabili per la priorità nel dispacciamento (e forse anche nell’agevolazione tariffaria del Cip6), è assai probabile che il costo marginale di produzione su cui si calcola il prezzo della tariffa lieviti verso l’alto, con la conseguenza di mantenere in vita anche impianti vecchi e inefficienti che altrimenti sarebbero fuori mercato.
Ricadute tecnologiche. Le decantate ricadute tecnologiche sul sistema Italia sono illusorie. Se le centrali saranno costruite da una Joint Venture Enel-Edf al 50% non è affatto vero che «tutto» sarà diviso a metà, a cominciare dal progetto dell’isola nucleare, che poi è quello che conta, per finire alle commesse industriali (come accadde trenta anni fa con l’esperienza del Superphoenix, da cui i tecnici italiani distaccati per dieci anni presso la Nersa non ricevettero granché in termini di acquisizione di kow how, mentre la Nira e l’Ansaldo ebbero le briciole della committenza). Il combustibile nucleare sarà costruito in Francia; il vessel in Giappone, nell’unica fabbrica al mondo in grado di costruirne uno delle dimensioni necessarie ad un reattore da 1.600 Mw; quanto alla componentistica di pregio (turbine, pompe, alternatori) sarà dura toglierla all’industria francese (Alsthom e associati) che punta all’accordo italo-francese proprio per ricevere commesse!
Chi paga e con quali soldi. L’Epr in costruzione in Finlandia ha sforato il budget previsto ed è probabile che costerà più di 7 miliardi di euro (cioè 3.400 euro/kw o 4.500 $/kw, quasi il doppio di un impianto a carbone). Quattro centrali fanno 28 miliardi di euro di cui la metà a carico dell’Enel, che dopo lo shopping europeo in Spagna, Slovacchia, Bulgaria è indebitata per 57 miliardi di euro e con i tempi che corrono sarebbe scellerato farla indebitare ulteriormente. Dunque è probabile che oltre alle facilitazioni previste dal ddl Scajola (precedenza nel dispacciamento, garanzie sui rischi di costruzione) si arrivi ad allargare il Cip6 anche alle centrali nucleari e comunque ad aumentare le tariffe finali.
Localizzazione degli impianti. Qui la manovra del governo italiano è a tenaglia: da un lato si punta a sfruttare i vecchi siti (Montalto, Latina, Caorso e Trino) in quanto già licenziati; con l’incertezza per Caorso e Trino dovuta alle condizioni del Po che non è in grado di fornire acqua per altri 3.300 Mw a meno di non fare torri di raffreddamento gigantesche che certo non gioverebbero al clima nebbioso di Piacenza e Vercelli. Dall’altro si è rispolverata la lista dei siti dell’ultimo Pen nucleare (Viadana, San Benedetto Po, Avetrana e Carovigno in Puglia, etc.): con qualche probabilità di successo perché - sia chiaro anche a chi pensa a un nuovo referendum contro il nucleare - le casse dei comuni sono dissanguate dai tagli alla spesa pubblica ed anche le amministrazioni più restie al nucleare potrebbero capitolare di fronte all’offerta degli incentivi previsti in caso di costruzione di nuove centrali. Ma se non bastasse il ddl Scajola prevede già che, se le amministrazioni locali non decidano in tempi certi, il governo avochi a sè ogni decisione in materia. Del resto già nel febbraio 2008 (governo Prodi)fu approvato un decreto legislativo che introduce la possibilità di escludere da qualunque valutazione ambientale le opere che - a giudizio dell’esecutivo - siano considerate opere di difesa nazionale o su cui venga apposto il segreto di stato. Recentemente il governo è ricorso a questa legislazione di emergenza procedendo alla realizzazione di impianti di trattamento dei rifiuti nucleari e di depositi di stoccaggio a Saluggia (Piemonte) e Rotondella in Basilicata senza procedere alla valutazione di impatto ambientale o, come nel caso di Saluggia, omettendo di rendere pubblica la documentazione di progetto per motivi di segretezza e di difesa nazionale.
In conclusione un accordo a perdere per l’Italia dal momento che la Francia importerà il 50% dell’energia prodotta in Italia dalle centrali nucleari, evitando anche i costi e le controversie relative all’insediamento di questi impianti entro i propri confini, visto che il territorio francese ne è disseminato e la gente non ne può più; l’industria francese terrà per sè le commesse fondamentali e il know how e potrà contare su una rassicurante pianificazione industriale (neanche la Cina ordinerebbe quattro centrali nucleari a un unico fornitore!)
L’Italia invece impiegherà 14 miliardi di euro in una tecnologia vecchia e obsoleta che se va bene ha un rendimento del 34%, non ha effetti significativi sull’occupazione, mentre produce scorie, servitù e militarizzazione del territorio. E magari qualcuno arriverà a sostenere che finalmente con le centrali nucleari non importeremo più energia dalla Francia, anzi la esporteremo, e se faremo tanti rigassificatori esporteremo anche gas!
Il nucleare non serve a ridurre la dipendenza dai combustibili fossili, più di quanto serva a ridurre l’inquinamento atmosferico: è solo la scelta disperata di un capitalismo in crisi che deve ricorrere alle leggi speciali e alla militarizzazione del territorio per imporlo.