Geraldina Colotti, il Manifesto 1/3/2009, 1 marzo 2009
L’ERBA E L’ELEFANTE
Quando un elefante lotta, ne soffre l’erba. L’antico proverbio africano sembra tagliato apposta per la lotta di potere che scuote il Madagascar. Da tre mesi, la grande isola centrafricana, la quarta della terra per estensione, conosciuta soprattutto per il turismo, fa notizia per lo scontro che oppone il presidente della repubblica, Marc Ravalomanana, all’ex sindaco della capitale Antananarivo, Andry Rajoelina. Il conflitto fra i due che covava da tempo, s’è inasprito il 13 dicembre 2008: quando il governo ha deciso di chiudere la televisione privata di Rajoelina, colpevole di aver diffuso per intero un’intervista all’ex-presidente Didier Ratsiraka, considerata «eversiva». L’ex presidente Ratsiraka, un tempo in odore di socialismo, poi appoggiato dalla Francia, ha governatoil paese per 25 anni. Dopo la sanguinosa crisi politica che ha portato al potere Ravalomanana, nel 2002, vive in esilio nella banlieue parigina di Neuilly-sur-Seine, ed è accusato di tramare nell’ombra per rovesciare l’antico rivale. Un conflitto che, dai primi scontri tra polizia e sostenitori di Rajoelina del 26 e 27 gennaio scorso, ha già provocato almeno 125 morti e più di 300 feriti.
Entrambi i contendenti fanno appello alla piazza, e l’ex sindaco catalizza lo scontento di un paese in cui il 70% della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Ma Rajoelina, che contende la scena all’imprenditore Ravalomanana (una sorta di Berlusconi malgascio che controlla l’economia e l’informazione e che è stato rieletto con brogli nel 2006), è a sua volta un giovane imprenditore d’assalto: un ex dj trentaquattrenne, poi organizzatore di spettacoli, che ha fatto fortuna con le imprese di stampa digitale, possiede un canale radiotelevisivo privato (Tele Viva), e ha consolidato il suo potere dall’importante trampolino politico di sindaco di Antananarivo. Lo chiamano Tgv perché ha bruciato come un treno le tappe della politica fino a mettersi a capo di un’«Alta autorità di transizione» da lui proclamata.
A sindaco di Antananarivo era stato eletto a furor di popolo anche Ravalomanana, nel novembre ’99: la sua immagine era quella del giovane semianalfabeta che aveva costruito un impero dal nulla. Un uomo della provvidenza che parla solo inglese, capace di incarnare i sentimenti di rivalsa di una parte dei malgasci, fortemente appoggiato dagli Usa, dall’Fmi e dalla Banca mondiale. Oggi, però, persino l’Fmi gli ha chiesto spiegazioni a proposito dell’acquisto di un Boeing da 47 milioni di euro che ha sostituito l’aereo presidenziale, e ha sospeso l’erogazione di 35 milioni di dollari di aiuti promessi. Aiuti che, dopo la robusta cura a base di privatizzazioni, inaugurata da Ravalomanana nel 2001, non sono mai stati negati, in cambio di «governance». E un più giovane uomo della provvidenza è anche quello che si è presentato sulla storica piazza del 13 Maggio, proponendo (contro un uomo degli Stati uniti) una... rivoluzione arancione modello ucraino.
L’elefante, dunque, sembra in lotta con la sua coda. Un conflitto di interessi fra due modelli di neoliberismo tropicale sotto il vigile sguardo delle potenze internazionali.
A finanziare il composito movimento d’opposizione di Rajoelina, è infatti una cordata di imprenditori locali penalizzati dalla gestione Ravalomanana, che ha aperto le frontiere agli investitori stranieri. Usando l’arma dei controlli fiscali, il presidente ha spazzato via un discreto numero di società che prosperavano nell’assenza di regole e spianato il campo a quella da lui diretta, la Tiko, che in dieci anni si è estesa dal settore agroalimentare a quello dei trasporti, delle costruzioni, delle pietre preziose, dei media... Nella primavera del 2002, durante la battaglia per il potere, Ravalomanana ha messo la mano sulla radio e la televisione nazionali, aggiungendoli al network privato Malagasy Broadcasting System e ad altre stazioni gestite dal suo entourage. Dopo l’apertura di alcuni giacimenti petroliferi, è arrivata anche la Tiko petroleum.
Un uomo direttamente ispirato dalla provvidenza, il presidente, come ha dichiarato al momento della sua elezione, forte del sostegno massiccio di tutte le potenti chiese malgasce. Quando Ravalomanana, vicepresidente della Chiesa di Gesù Cristo (protestante) ha cancellato dalla costituzione del paese il concetto di laicità, l’unica ad aver mostrato segni di preoccupazione è stata la chiesa cattolica, timorosa di perdere presa in campo politico. Per il resto, si racconta che i camion di Tiko portino un numero di immatricolazione che termina con il 7, cifra biblica. Ed è senz’altro per ispirazione divina che il 26 giugno, giorno dell’indipendenza dalla Francia (1960), ogni insegna pubblicitaria ha il marchio di Tiko. Scrive Rémi Carayol sul prossimo numero di Le Monde diplomatique/ilmanifesto, in edicola il 13 marzo: «Un giorno - uno solo - mentre un enorme carico Tiko si avvicina al porto di Toamasina (Tamatave), fa abbassare il tasso di cambio... L’indomani, il corso abituale viene ristabilito. Un altro giorno, decide di abbassare le tasse sull’olio, di cui è il primo importatore».
Il prato su cui si batte l’elefante è quello delle terre arabili date «in concessione» alle multinazionali. Spinte dal rincaro dei prezzi dei prodotti base sui mercati internazionali, nel contesto di crisi alimentare, le multinazionali investono nel settore agricolo: soprattutto nei paesi del Sud, dove ci sono ancora terre disponibili, come in Madagascar, in cui solo l’8% delle terre arabili è effettivamente coltivato. Si va quindi accelerando un «neocolonialismo delle terre», una corsa al paese povero in cui accaparrarsi terreni: per coltivare prodotti a basso costo da importare nei paesi ricchi che non ne producono abbastanza o che hanno puntato sull’agrobusiness. Arabia Saudita, Kuwait, Qatar, sono fra i principali paesi interessati a investire in agricoltura gli straordinari profitti accumulati per l’aumento del prezzo del petrolio: un’alternativa al crollo delle borse che cerca al tempo stesso di premunirsi dalla crisi alimentare.
Così vorrebbe fare l’impresa sudcoreana Daewoo Logistic che ha iniziato le pratiche per affittare in Madagascar un milione e trecentomila ettari per produrre olio di palma e mais. La faccenda è saltata fuori nel novembre 2008 a seguito di un articolo del Financial Times, ripreso dalle organizzazioni ambientaliste non governative, contestato senza troppi argomenti dalla multinazionale. Un argomento imbarazzante e scivoloso per il presidente, attaccato dall’opposizione e screditato presso il popolo malgascio, che considera sacra «la terra degli antenati». Quella terra che coltiva da diverse generazioni e che per tradizione orale, e disposizioni del periodo socialista, gli appartiene. Per questo, molte organizzazioni contadine hanno denunciato l’ambiguità di certi piani di aiuto allo sviluppo e il bluff della legge sul possesso delle terre, promulgata dal governo nel 2005. Tantopiù che nessun contadino potrebbe disporre dei 50.000 aryaris (20 euro), necessari a ottenere il certificato di proprietà, da aggiungere al costo per pagare la trasferta agli ispettori incaricati della verifica.
Quando un elefante lotta, ne soffre l’erba. Durante gli scontri di piazza, la gente ha preso di mira i simboli del potere, ma ha anche assaltato i negozi, portandosi a casa sacchi di riso o farina. Nonostante tutta la demagogia sulle meraviglie del libero mercato, non è a vantaggio delle classi popolari che sono andati i profitti dichiarati: il 70% delle famiglie non riesce a provvedere al fabbisogno alimentare, a curarsi, né a mandare i figli a scuola. Nonostante il vuoto di programma dell’opposizione, a tirare la coda all’elefante, potrebbe essere una nuova rivolta della fame dall’esito imprevedibile.