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 2009  marzo 03 Martedì calendario

STARBUCKS IN BUSTINA


Pronti? Via. Si chiama così il caffè istantaneo in vendita da oggi negli Usa nelle caffetterie della catena Starbucks. Se l’esperimento funzionerà, la bustina di caffé liofilizzato arriverà anche negli altri paesi presidiati dal marchio della sirena (37 in tutto, circa 15 mila punti vendita). Howard Schultz, il padre padrone di Starbucks, infiocchetta l’ultima creazione con un sacco di presunte virtù: ottenuto con un metodo «segreto» e dopo laboriose ricerche, Via manterrà «l’aroma, il gusto, la ricchezza» di una tazza di Java servita dai baristas in grembiule verde nei negozi della catena. Si narra che Don Valencia, capo del settore Sviluppo&Ricerca della multinazionale, abbia lavorato anni per imbroccare la formula giusta di un caffè liofilizzato all’altezza degli standard di qualità vantati dal marchio. Ma prima d’essere battezzato Via, omaggio postumo a Valencia, ricercatori e manager di Starbucks chiamavano familiarmente Jaws il nuovo prodotto. L’acronimo sta per Just add water, stir. Aggiungete l’acqua e mescolate. Come un qualsiasi Nescafè, bevuto in piedi in un angolo cucina. Con buona pace delle «emozioni», del «teatro», del romance, della socialità che, sempre secondo Schultz, sono stati i punti di forza dell’«esperienza» regalata da una caffetteria Starbucks.
Per la sirena, logo della catena, mettersi a vendere caffè solubile equivale ad alzare bandiera bianca. l’ultima tappa di un processo di autocannibalizzazione di un marchio, vittima prima del troppo successo, poi della crisi economica. Il mercato mondiale dell’instant coffee vale 17 miliardi di dollari l’anno. Howard Schultz mira a conquistarne una fetta per risalire una china che ha fatto precipitare le azioni Starbucks a un quarto del valore che avevano nel 2006.
I guai per la sirena sono iniziati nel 2007 quando sono stati archiviati i bei tempi in cui si aprivano due Starbucks uno di fianco all’altro e davanti a entrambi si formavano le code. La catena aveva «insegnato» agli americani a bere un caffè diverso dalla sbobba marroncina che bolle e ribolle nelle caraffe onnipresenti negli States. All’improvviso gli americani si erano messi a discettare di miscele e torrefazione, avevano provato l’ebbrezza d’affondare le mani nei sacchi pieni di chicchi. Erano stati catturati da un ospitale «Terzo luogo» (né casa, né ufficio), dove potevano sostare e oziare, leggere e ascoltare musica, collegarsi a internet, rimorchiare qualcuno/a. L’esatto opposto di quel che è un caffè italiano, anche se Schultz sostiene che fu in un bar di Milano che nel 1983 gli si accese la lampadina in testa. Seattle, Hollywood e la cultura New Age misero le ali alla moda di Starbucks. L’eccesso di crescita e di successo ha svelato che ciò che si spacciava per unico, singolare, diverso (e, quindi, più costoso) è improntato alla serialità, come in qualsiasi catena. I baristas, agli albori descritti come sacerdoti votati al culto del caffè, sono presto risultati essere lavoratori pressati dalla fretta che si limitano a pigiare dei bottoni.
Perché continuare a spendere 4 dollari (Fourbucks è il nomignolo della sirena) per un «latte» (un caffelatte, per quanto corretto con sciroppi vari), se la logica di Starbucks è la stessa di McDonald’s? La crisi economica ha moltiplicato il numero degli americani che, fattasi questa domanda, hanno preso a disertare Starbucks. Howard Schultz, riassunto il ruolo di amministratore delegato, ha bloccato le aperture di nuovi punti vendita sia negli States che all’estero. Lo scorso luglio ha chiuso 600 caffetterie. Alla fine del 2008 ne ha chiuse altre 300, tagliando 7 mila posti di lavoro. In parallelo, Starbucks vendendo panini e insalate (e ora pure il caffè solubile) si è mcdonaldizzato ulteriormente. Risultato: ormai l’80% dei clienti della sirena consuma il suo beverone fuori dal negozio. Per converso, McDonald’s si è messo a far concorrenza a Starbucks sul suo terreno: ha aperto angoli caffè in 14 mila punti vendita negli States, con prezzi inferiori quasi di un dollaro. Finché durerà la crisi, McDonald’s avrà la meglio su uno Starbucks in forte sofferenza.
Racconta gli anni d’oro della catena Starbucks, Il buono e il cattivo del caffè, appena tradotto dalle edizioni Egea, di Taylor Clark. un libro bello e sfortunato. Bello perché l’autore, giornalista di un settimanale alternativo di Portland, conduce un’inchiesta arguta e documentata su Starbucks, evitando gli opposti estremismi della demonizzazione e dell’apologia. Sfortunato perché il libro, scritto nel 2007, pur cogliendo le avvisaglie di una saturazione del marchio, non dà conto della crisi che ha investito l’impero di Schultz. Dove la vera materia prima non è il caffè, ma il latte che incide il doppio sul costo della consumazione.