Gian Guido Vecchio, Corriere della Sera 04/03/2009, 4 marzo 2009
CITT DEL VATICANO
In tempi di crisi, e mentre Benedetto XVI invoca un «codice etico comune» contro l’«idolatria» del denaro, può venir buona anche la shar’ia e la sua proibizione di far soldi con i soldi: «I principi etici che sono alla base della finanza islamica potrebbero riportare le banche più vicine alla clientela e al vero spirito di servizio che dovrebbe contraddistinguere ogni servizio bancario». Lo scrive l’Osservatore Romano
(«Dalla finanza islamica proposte e idee per l’Occidente in crisi») anticipando un articolo di Loretta Napoleoni e Claudia Segre che sarà pubblicato su
Vita e Pensiero, rivista dell’Università Cattolica.
Strano? Meno di quanto si possa pensare, se si considera che «le grandi religioni hanno sempre avuto un tratto comune: l’attenzione alla dimensione umana dell’economia», spiega Giovanni Maria Vian, direttore del quotidiano della Santa Sede. «Pensiamo ai francescani e alla nascita dei Monti di Pietà nel Medioevo: la banca non è "cattiva", dipende da cosa fa». Il modello islamico, scrivono le autrici, proibisce la riba, «l’interesse caricato da chi presta denaro». I soldi «sono mezzi o strumento produttivo» ed è questo «il principio applicato nelle obbligazioni cosiddette sukuk. Il sukuk è collegato sempre all’investimento reale, per esempio per pagare la costruzione di una casa o immobile, e mai a scopi speculativi». Per questo può funzionare: considerata la «crisi di fiducia» generale, «il sistema bancario internazionale ha bisogno di strumenti che riportino al centro l’etica del business e permettano di raccogliere liquidità e aiutare a ricostruire la reputazione di un modello capitalistico che ha fallito». Alle banche occidentali, insomma, converrebbe: «Rispetto alla crisi del ’29 si è formato per reazione un eccesso di liquidità stagnante che deve essere rimessa in moto e il
sukuk potrebbe essere un veicolo adatto a tale scopo».