Filippo Ceccarelli, la Repubblica 04/03/2009, 4 marzo 2009
Supplì, porchetta e gelato quando il cibo manda in tilt il Palazzo - Politici mangioni, magna-magna, mangiapane a tradimento
Supplì, porchetta e gelato quando il cibo manda in tilt il Palazzo - Politici mangioni, magna-magna, mangiapane a tradimento. E´ strano come nel Palazzo si continui pervicacemente a sottovalutare il peso simbolico del cibo, del mangiare, dei suoi costi e dell´immaginario che inesorabilmente si trascina dietro come un fardello peccaminoso. Perché a Montecitorio e a Palazzo Madama si fanno mille comitati per l´immagine e la comunicazione. Si progettano e si insediano a getto continuo siti, fondazioni, mostre, concerti, negozi di gadget e adesso anche tv istituzionali. Si distribuiscono quattrini a fior di consulenti, addetti stampa, consiglieri, portavoce e spin doctor: e però non c´è mai nessuno, lì dentro, che apra l´utilissimo ed esaustivo «Dizionario dei proverbi italiani» del professor Carlo Lapucci (Le Monnier, 2006) dove in buon ordine alfabetico è riposto distillato primordiale della convivenza, e quindi anche il segreto del potere: «Chi mangia a crepapanza, offende la temperanza», «chi mangia da solo si strozza», «chi mangia a casa degli altri, risparmia a casa sua», «chi mangia, beve, dorme e caca, sta dieci volte meglio del Papa». Per dire il meglio del meglio. Ecco, appunto: specie in tempi di crisi e incombenti restrizioni alimentari, l´invidia sociale - per dirla in modo molto berlusconiano - genera piccoli e indispensabili mostri che i rappresentanti del popolo non possono permettersi il lusso di ignorare o trascurare. E invece lo fanno, o almeno ci provano sistematicamente, sia pure secondo una misteriosa ciclicità, con l´unico risultato di mettere a nudo le proprie astute miserie gastronomiche per poi ritirarsi con la coda tra le gambe. «Siamo carne da cannelloni» sintetizzò l´indimenticabile Storace. E´ storia antica e disonorevole, segnata da inequivocabili odori di cucina che arieggiavano i fatali corridoi e che nel 1924 fecero esclamare Mussolini, investito da un nube di minestrone: «Un ristorante qui è fuori posto. Alla Camera si viene per fare le leggi, non per mangiare: si chiuda!». E così fu - solo che di lì a poco chiuse anche la Camera. Quando fu riaperta, in tempi di fame nera, le voglie degli onorevoli erano assai contenute e l´austerità dominante. Ma presto la grana del cibo ebbe la sua rivincita, sia pure declinata in termini di restrizioni religiose: alcuni dc non volevano carne e salumi il venerdì alla buvette. Vennero allora considerati pellegrini e come tali dispensati. Ben altre avventure aspettavano la privilegiatissima convivialità parlamentare. Per inoltrarsi sul terreno dei nessi impalpabili e delle misteriose correlazioni tra cibo e potere basterà qui ricordare che tra il 1991 e il 1992, ossia poco prima che venisse giù la Prima Repubblica, alla Camera e al Senato non pensavano che a moltiplicare i punti di ristoro. E arricchivano i menu, progettavano self-service, installavano roof-garden sopra l´antico edificio di San Macuto, come pure erano colpevolmente sventrate le pregevoli architetture berniniane per dar vita a un costosissimo ristorante, peraltro inaugurato quando già in piazza Montecitorio, dietro le transenne, c´era una folla turbolenta che inveiva e tirava ortaggi ai deputati di passaggio. Tutto questo poi si dimenticò: e piano piano la smania di un pasto esclusivo e abbordabile riprese slancio secondo modalità di implicito privilegio. La Casta di Stella e Rizzo era ancora lontana, ma nel corso dell´ultimo quindicennio nessuno è riuscito ad arginare la credenza che le cucine della Camera e ancor di più quelle del Senato si rivelassero una costante e inesauribile fonte di polemiche e discredito. Dall´aumento dei costi al palpeggiamento dei supplì, dagli impicci delle ditte appaltatrici alle dispute sulla nazionalità del burro o dell´etichetta delle mele SudTirol, dall´amo da polpo trovato nel piatto dell´onorevole Fasciani, Pd, all´epifania dell´immancabile sorcio. Per non dire dei più plausibili sospetti di scrocco da parte dei pretesi rappresentanti del popolo e dei conseguenti rimedi messi in atto: la doppia cassa, con la cortese avvertenza affinché il «caro collega» effettui la consumazione «previa presentazione dello scontrino agli addetti al banco». Così il cibo contrassegna, nelle sue varie ed emblematiche ricadute, il paradigma del comando nella sua dimensione più fisica, arbitraria e desiderante. Chi vuole la porchetta, alla buvette, e chi il gelato. Chi si fa paladino della «valorizzazione dei prodotti del territorio» e pretende di conseguenza il caciocavallo podolico del Gargano, lo squacquerone con i fichi caramellati, lo scagliozzo foggiano. Al Senato organizzano settimane gastronomiche regionali, la presidenza concede al primo corso per sommelier la sala Spadolini, che forse si sarà rivoltato nella tomba. Ma che importa! E un grande successo e così si procede a mini seminari di cocktail e long-drink. Dai valori etici, si scherza, a quelli etilici. Chi non beve in compagnia o è un ladro o una spia. (Prosit).