Fabrizio Rondolino, La Stampa 4/3/2009, 4 marzo 2009
I romanzi dei segretari Pd messi a confronto Frasi brevi e spazi bianchi: volevano essere Baricco? Così come in televisione tutti hanno qualcosa da dire e pochissimi sanno ascoltare, le librerie traboccano di libri che nessuno legge
I romanzi dei segretari Pd messi a confronto Frasi brevi e spazi bianchi: volevano essere Baricco? Così come in televisione tutti hanno qualcosa da dire e pochissimi sanno ascoltare, le librerie traboccano di libri che nessuno legge. Un romanzo che vende 2500 copie è considerato un successo dall’editore; sul sito ilmiolibro.it, che consente di autopubblicarsi con modica spesa al motto «Se l’hai scritto va stampato», sono presenti più di 4000 opere in cerca di lettori che presumibilmente non troveranno mai. D’altro canto, avendo molto da scrivere, ci resta poco tempo per leggere. Anche i critici letterari - in teoria lettori di professione - non sfuggono alla regola, e oramai recensiscono gli autori o i risvolti anziché i libri. Le scuole di scrittura, magari a dispense oppure on-line, suppliscono all’incultura generale (cioè alla non-lettura) offrendo ricette e schemini, proprio come il Cepu. in quest’Italia letteraria che sono scesi in campo tutti e due i segretari finora avvicendatisi alla guida del Partito democratico. In altri tempi, un politico prestato alla letteratura sarebbe stata senz’altro una buona notizia: il segno cioè di una sensibilità e di una cultura non comuni. In quest’epoca di povertà, l’analisi deve farsi più attenta. E cominciare da un interrogativo preliminare: perché mai Walter Veltroni e Dario Franceschini hanno sentito il bisogno di scrivere romanzi? Il protagonista di La scoperta dell’alba (2006), opera seconda di Veltroni dopo i cinque racconti di Senza Patricio (2004), lavora all’Archivio di Stato, dove cataloga, leggendone i diari, le vite ordinarie di uomini ordinari. sposato ad una moglie assente, ha un figlio appassionato di basket e una figlia down. La sua vita - ordinaria come quelle che va catalogando - s’impenna d’improvviso un’estate, quando, da solo, torna alla casa di campagna di famiglia, oramai abbandonata. Lì trova un vecchio telefono di bachelite, compone per gioco il numero della casa di quand’era ragazzo, e, proprio come in Ritorno al futuro, comincia a parlare con se stesso bambino. Grazie a queste conversazioni scoprirà la verità sul dramma che gli ha segnato la vita: l’inspiegabile e improvvisa scomparsa del padre trent’anni prima, nel cuore degli anni di piombo. Il protagonista di La follia improvvisa di Ignazio Rando (2007), secondo romanzo di Franceschini dopo Nelle vene quell’acqua d’argento (2006), è un impiegato modello della Regia Conservatoria delle Ipoteche che un bel giorno salta sul bancone dell’ufficio e, senza dire una parola, se ne esce fra gli sguardi esterrefatti dei colleghi. A zonzo per Ferrara, Rando sprofonda poco per volta nella follia, mentre un collega ambizioso e meschino, postosi sulle sue tracce, scopre migliaia di schede manoscritte in cui l’impiegato, forse già pazzo, aveva annotato maniacalmente tutti i suoi sogni. Giudicandolo pericoloso, collega e capoufficio lo denunciano alla polizia, che trova così il colpevole perfetto per l’incendio che da lì a poco distruggerà la Conservatoria. Forse Veltroni e Franceschini hanno deciso di scrivere perché volevano essere Baricco. Le storie che raccontano hanno poco a che fare con il «realismo magico», come pure è stato detto, e molto invece con il repertorio scintillante di effetti speciali - i diari da catalogare, i sogni da inventariare - cui il fortunato scrittore torinese ci ha abituati. di Baricco la predilezione per i personaggi stravaganti o estemporanei, per le storie che vogliono essere arabeschi, per le situazioni sovraccariche di senso (la follia, la casa dei ricordi), per le frasi sincopate e per le anafore, per i frequenti a capo e per gli spazi bianchi, e insomma per tutto quell’apparato scenografico che dovrebbe preparare la magia, se non il mistero, della narrazione. Il fatto è che, proprio come nell’arte culinaria, non sempre gli stessi ingredienti producono gli stessi risultati, e mandare a mente una ricetta di Vissani non fa di nessuno di noi uno chef. Giuseppe Antonelli, recensendo sull’Indice il romanzo di Veltroni, ha severamente parlato di «pagine che girano su se stesse, come imprigionate in un meccanico ciclostile», e ha indicato l’origine non letteraria, ma poveramente giornalistica del periodare breve e brevissimo dell’autore. In effetti, ciò che più colpisce in queste due opere non è tanto, nel caso di Franceschini, l’inconsistenza del racconto - il tema della follia e quello del lavoro d’ufficio attraversano la letteratura del Novecento con ben altro piglio - o, nel caso di Veltroni, la sovrabbondanza caotica del materiale - la figlia down, il padre scomparso, il terrorismo -, quanto la loro povertà linguistica, lessicale e sintattica. Leggiamo. «Lo accompagnai in ospedale. Abbracciò forte la mamma. Le disse parole di conforto. Poi portarono Stella. Lui la guardò in silenzio, confuso.» (Veltroni) «Doveva bere immediatamente. Dove poteva trovare dell’acqua? Subito. Gli serviva subito. Non gli passava, quella sete maledetta!» (Franceschini) «Pensai a Lorenzo che aspettava a casa festoso. Pensai ai nonni, agli amici. Pensai agli anni di fronte a noi. Pensai che una gioia infinita poteva diventare un’ansia infinita. Pensai a Stella.» (Veltroni) «Come onde di liquidi densi. Lente salgono dentro il corpo sino a uscire dagli occhi spalancati. Nausea. Vomito sulle lenzuola pulite del lettino di ferro. Giallo. Il latte a grumi odora di acido. Un pianto salato che scende sulla spalla in mezzo a lunghi capelli stretti nel pugno.» (Franceschini) Parafrasando Padoa Schioppa, questa è letteratura da bamboccioni. L’allora ministro dell’Economia criticò quei figli che, a trent’anni suonati, ancora vivono in famiglia, e si prese qualche insulto. L’analisi dovrebbe invece essere estesa e approfondita. Spira, nelle pagine di Franceschini e di Veltroni come in quelle di tanta narrativa contemporanea, un venticello adolescenziale che sfiora i grandi temi dell’esistenza con l’ingenuità di un ginnasiale problematico, e poi li mette in pagina con la sfrontata convinzione di aver scritto qualcosa di importante. perché si legge poco, che accadono queste cose.