Marcello De Cecco, Affari & Finanza (Repubblica) 02/03/2009, 2 marzo 2009
Nazionalizzare la strada è segnata Repubblica – 02 marzo 2009 AFFARI FINANZA In America accadono cose che Raffaele Mattioli avrebbe definito "stupende": il grande sacerdote del libero mercato, Alan Greenspan, ora consulente di un fondo di investimento non alieno dal comprare titoli spazzatura, ha dichiarato apertamente di essere a favore della nazionalizzazione di banche in particolare difficoltà
Nazionalizzare la strada è segnata Repubblica – 02 marzo 2009 AFFARI FINANZA In America accadono cose che Raffaele Mattioli avrebbe definito "stupende": il grande sacerdote del libero mercato, Alan Greenspan, ora consulente di un fondo di investimento non alieno dal comprare titoli spazzatura, ha dichiarato apertamente di essere a favore della nazionalizzazione di banche in particolare difficoltà. Il primo a parlare di questo argomento tabù era stato Christopher Dodd, il navigatissimo presidente dell’ importante comitato bancario del senato americano, certamente non un nemico delle banche. Dopo di loro, un altro strenuo difensore del libero mercato, il senatore repubblicano Lindsey Graham, si è espresso apertamente sull’ opportunità di una diretta presa di controllo da parte dello stato delle principali banche in difficoltà come Citibank e BankAmerica. Negli stessi giorni, anche dall’ entourage di Obama provenivano suoni dello stesso tipo. Poi, a un tratto, la musica è cambiata. Ben Bernanke ha dichiarato di osteggiare fermamente la nazionalizzazione di una banca come Citi, poiché distruggerebbe il valore di mercato della sua licenza di esercizio. Ed ha continuato a difendere questa posizione anche dopo che in parecchi gli hanno fatto notare che tale valore sarebbe già oggi zero se lo stato non avesse iniettato enormi quantità di denaro pubblico.Sarebbe zero anche se il mercato non sapesse che lo stato impedirà ad essa e alle sue consorelle di simile stazza di fallire. Il caso del fallimento della Lehman è dunque considerato come un orrendo errore di percorso della passata Amministrazione, da non ripetere in nessun caso. Dopo Bernanke, anche l’ entourage presidenziale ha cominciato a negare volontà nazionalizzatrici. Sembra invece che la soluzione che si adotterà per Citigroup sarà di tipo misto. Il Tesoro convertirà le azioni privilegiate di Citi che già possiede dopo i primi interventi in azioni ordinarie, non metterà altri fondi dopo i 45 miliardi che ha già investito nella banca, e detterà cambi di membri del consiglio di amministrazione. Ma la parte più rilevante è che il governo esigerà che il capo attuale della banca, Vickram Pandit, trovi sul mercato capitali addizionali per rafforzare la banca stessa. Sembra dunque che i repubblicani non si preoccupino affatto dell’ effetto che una paventata nazionalizzazione può avere sulle azioni delle banche coinvolte. Anzi, l’ organo ufficiale dei liberisti a oltranza, il Wall Street Journal, si schiera con Greenspan e gli altri convertiti in un vigoroso editoriale, dove afferma che i comunicati governativi come quello del 22 febbraio, notevole per la propria mancanza di proposte specifiche, riescono solo a far ulteriormente scendere le quotazioni a Wall Street. Impietosamente, all’ editoriale è aggiunto un grafico dal quale si evince che dall’ inaugurazione del nuovo presidente la Borsa è scesa da quota 9000 a quasi 7000. E la colpa, secondo il giornale, è l’ incapacità mostrata finora dal nuovo governo di prendere il toro per le corna, del suo continuo dilazionare la data delle decisioni definitive in merito al sistema finanziario. Non sembra che dalle esortazioni repubblicane il governo sia stato indotto ad accelerare i tempi. La soluzione annunciata nei confronti di Citi consiste in realtà in una nuova mascherata dilazione, perché soldi nuovi non se ne vedono, si fa un passo verso la proprietà governativa di una parte delle azioni ordinarie, ma si dà di nuovo fiducia al capo attuale della banca, malgrado abbia mostrato carenze notevoli nel tempo ormai abbastanza lungo in cui è stato al timone. E, a confermare la diagnosi del WSJ, i mercati hanno accolto le notizie su Citi con un nuovo ribasso. La dilazione governativa continua con un altro provvedimento appena assunto: quello di sottoporre le 19 banche che negli Usa hanno un attivo superiore a 100 miliardi di dollari, al cosiddetto "stress test", una prova di resistenza delle banche stesse a simulazioni di scenari macroeconomici pessimisti per il prossimo futuro. Il test serve a capire se la capitalizzazione delle banche stesse può diventare seriamente insufficiente in tali ipotesi sull’ andamento dell’ economia. Che succede se la disoccupazione, ad esempio, sale al 10% o se la deflazione dei prezzi, che negli USA ha già mostrato la sua orrenda testa, continua e si aggrava, mettendo in ulteriori difficoltà i debitori? Conoscere è necessario per deliberare, direbbe Luigi Einaudi. Il guaio è che, in questo caso, gli stress test richiedono mesi, mentre il presidente Obama, come tutti i politici, dovrebbe aver fretta, avendo a che fare con mercati che si sono abituati a funzionare in "tempo reale". I conservatori, dunque, credono che l’ annuncio di una nazionalizzazione aperta per Citigroup metterebbe fine alle illazioni fondate sulla vaghezza governativa e risolverebbe, come dice Greenspan, il problema spinosissimo della valutazione dell’ attivo "tossico" della grande banca e anche delle sue consorelle. L’ editoriale del WSJ adombra apertamente una seconda fase, di spezzettamento e rivendita di parti appetibili di Citi, dato che l’ attività dei suoi precedenti capi ha portato ad una aggregazione che molti ormai chiamano un "impero balcanico" tanto è eterogenea e incoerente. Basta con i provvedimenti ad hoc che proseguono da ormai due anni, dice il giornale conservatore. Sia la nazionalizzazione di Citi il punto fermo, dal quale parte una nuova fase. In effetti, a stare ai conti fatti dalla Società Ricerche e Studi di Mediobanca, in tutto il mondo occidentale, gli interventi pubblici a favore delle banche hanno ormai raggiunto la rispettabile cifra di 470 miliardi di euro, interessando ben 455 banche. Ad essi vanno aggiunti i 3 miliardi di euro stanziati dalla città di Amburgo e dal land dello Schleswig Holstein per salvare la Nordbank. Divisi per paese, vediamo che ben 421 delle 455 banche sono negli Stati Uniti, e hanno ricevuto 199 miliardi di euro. La manna pubblica è così scesa in America su grandi e piccoli e sarebbe affascinante studiare con quali criteri si sono scelte le banche minori da rifinanziare da parte di un comitato di soli cinque tecnici, istituito ai tempi di Bush, che ha operato senza appello, protagonista di una silenziosa politica industriale che, come Minosse "giudica e manda", negando un altro cardinale principio del fondamentalismo di mercato. Per importo, gli interventi pubblici operati in Germania a favore delle banche sono secondi solo a quelli americani, impegnando ben 133 miliardi di dollari. Ma qui sono solo otto gli istituti coinvolti nelle operazioni di salvataggio. In aggiunta, nei giorni scorsi il governo tedesco è stato costretto dal dettato della propria costituzione, a scrivere una legge, da sottoporre al parlamento, sulla possibilità di esproprio di una banca, la Hypotheken Real Estate, nel cui azionariato si conta un coriaceo fondo di investimento americano che non vuole vendere la propria quota a poco e minaccia di far fallire la banca, malridotta per incauti investimenti in subprime americani ma protagonista sul mercato tedesco dei pfandbriefe, multicentenario strumento di impacchettamento di mutui immobiliari, assai popolare presso i risparmiatori tedeschi. Ora il governo, dopo molte esitazioni, ha fatto il primo passo, rinnegando il principio della santità della proprietà privata, che era stato invece infranto dai nazisti con la nefanda politica dell’ enteignung, l’ esproprio delle proprietà ebraiche. Si augura, la signora Merkel, che esso basti a ridurre a più miti pretese il fondo americano che possiede il 25% della Hypotheken. Staremo a vedere. Nella lista segue l’ Olanda, che pur piccola, ha impegnato ben 49 miliardi per soccorrere due banche e poi la Gran Bretagna, con 42 miliardi per sei banche. Poi vengono, a eccezione della Francia, presente con 17 miliardi, paesi decisamente piccoli, come Belgio, Lussemburgo, Irlanda, Islanda, Svizzera, che però impegnano somme ragguardevoli rispetto alle dimensioni del loro pil. Malgrado una recentissima comunicazione della Commissione della Unione Europea, che stabilisce delle dettagliate guideline che i paesi membri sono chiamati a seguire negli interventi a favore delle banche, con molta attenzione al serissimo problema degli "aiuti di stato" che tali interventi pongono, finora si è trattato anche in Europa di interventi ad hoc e quasi esclusivamente a livello nazionale. La peculiare costituzione della Banca centrale europea, infatti, le ha impedito di avere alcun ruolo in queste vicende, al contrario di quel che accade nei paesi, come gli Stati Uniti, che hanno un regolare governo e una regolare banca centrale. La moneta unica europea l’ abbiamo introdotta, ed è stata nella crisi un notevole baluardo specie per i paesi piccoli e quelli, come il nostro e la Grecia, fortemente indebitati. Ma il prezzo pagato è stata la esclusione della Bce dai compiti tipici delle banche centrali nei momenti di crisi. E’ riuscita a fare da prestatore di ultima istanza alle banche di tutta Europa (incluse quelle inglesi) ma non ha potuto coordinare e dirigere gli interventi pubblici a favore delle banche che si sono susseguiti. E, in sua assenza, non lo ho fatto nessun altro. Vedremo ora quale accoglienza avranno le guideline della Commissione. - MARCELLO DE CECCO