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 2009  marzo 03 Martedì calendario

MILES DAVIS - IN PARADISO CON DUE ACCORDI


A volte qualcuno ti chiede: vorrei sentire un disco di jazz, ma non so da dove cominciare. Beh, conviene farlo cominciare dalla vetta. Il disco giusto per chiunque voglia avvicinarsi al jazz è, senza ombra di dubbio, ”Kind of blue” di Miles Davis. Ed è anche il disco che bisognerebbe portarsi sull’isola deserta. Quello che si dovrebbe consegnare agli extraterrestri che venissero a trovarci. Quello che, il giorno del giudizio universale, sarà salvato per primo. Insomma, è ”il” disco.

Purezza, essenzialità, semplicità. Il 2 marzo del 1959, il trentatreenne Miles Davis entrò negli studi di registrazione della Columbia, a New York, e registrò i primi tre brani del disco. Ci tornò il 22 aprile e incise gli altri due, che compongono il lato B. Con lui, un quintetto di mostri sacri, due sax, piano, basso e batteria: Julian ”Cannonball” Adderley, John Coltrane, Wynton Kelly, Bill Evans, Paul Chambers e Jimmy Cobb.

Come per tutti i capolavori, anche su questo disco è stato scritto di tutto, migliaia di articoli, interviste, commenti, perfino un libro (Kind of Blue. New York 1959: Storia e fortune del capolavoro di Miles Davis, di Ashley Kahn, pubblicato in Italia nel 2003 da Il Saggiatore), per non parlare delle infinite riedizioni discografiche (l’ultima delle quali è un cofanetto della Columbia, con cd, Lp, dvd e libro fotografico), comprendenti tracce scartate, attacchi sbagliati, e immagini rubate in studio. Totale: dieci milioni di copie vendute, un record per i dischi jazz.

Dal punto di vista storico, ”Kind of Blue” arriva dopo la scorpacciata di be-bop che riempiva i brani di accordi e di una moltitudine di note, assoli scroscianti, virtuosismi e spettacolarità varie. Poi fu la volta del cosiddetto jazz ”modale”, quello che si concentrava sulle scale più che sugli accordi, lasciando così maggiore spazio alla creatività rispetto alla partitura. Miles sposò la linea. In molti sostengono che Kind of blue sia per eccellenza il disco del jazz modale, uno snodo tra be-bop e hard bop. Tecnicalità che lasciamo ai musicologi. In realtà questo disco è ben di più: è bellissimo, ed apre ad un futuro musicale che ancora oggi, forse, non si è completamente esaurito.

Ne parliamo con un grande trombettista jazz italiano, Guido Mazzon, che di Miles Davis ha ereditato certamente il suono limpido e la poetica raffinata e discreta, ma portandola ai limiti estremi dell’improvvisazione radicale.

Possiamo abbozzare una specie di ”guida all’ascolto”, brano per brano?

«Certamente sì, ma uno dei punti di grandezza di questo disco è proprio la suggestione unica che offre. Il suo mood unitario è dato da un tocco quasi ineffabile, qualcosa di celestiale: Kind of blue, appunto. E questa eccezionalità viene anche dal fatto che Davis entrò in sala d’incisione con un progetto in testa – sapeva che voleva qualcosa di nuovo rispetto al passato – e ne uscì con un’altra cosa. Un classico e fortunato esempio di ”serendipità”».

Si racconta che Davis avesse idee precise e lineari, appuntate su foglietti di musica piuttosto ridotti.

«Proprio in quel metodo consiste, a mio avviso, la grandezza del disco: idee chiarissime ma essenziali, in modo da lasciare la massima libertà ai musicisti, vincolandoli soltanto ad un modo di sentire la musica, ma liberandoli da accordi asfissianti, da temi rigidi e da strutture complesse. Tutto ciò ha permesso uno sviluppo perfino estremo della melodia pura da parte di tutti. Per questo Kind of blue piace a così tante persone: perché è semplice, nel senso più alto del termine, ed arriva diretto all’ascoltatore. Il fatto, poi, che i brani siano stati registrati tutti secondo il criterio del ”buona la prima”, dona ulteriore spontaneità, evitando ai musicisti di abituarsi alle formule e crearsi pregiudizi sui brani. Questo disco è un inno alla libertà espressiva e alla creatività».

La semplicità si coglie subito, fin dal primo brano: il celebre So What.

« geniale, qui, la scelta di questi due soli accordi che reggono tutto. Due mattoni leggerissimi che obbligano tutti ad essere altrettanto sobri. In questo disco sentiamo i due sassofonisti John Coltrane e Cannonball Adderley scarni e puliti come mai li sentiremo. Quando la ripetizione dei due accordi di So What diventa ossessiva, in quel momento esce la tromba di Miles in assolo e di colpo si veleggia nell’aria, in un clima trascendentale. Vorrei dire che – anche da musicista – la libertà armonica offerta dai due soli accordi ripetuti coincide con una libertà emotiva enorme. Quella cadenza ti massaggia i precordi, tocca il profondo: così si distingue la musica alta da quella che si può anche non suonare».

Il secondo brano è Freddie Freeloader, un blues classico.

«Un pezzo che ricrea proprio l’anima ruspante e quasi grezza del blues più vero. Al pianoforte c’è Wynton Kelly, che ha un grande senso del blues, e solo in questo brano sostituisce Bill Evans. Ma non lasciamoci ingannare: tutto l’album – e direi tutta la musica di Davis – è permeata da un grande senso del blues, anche negli ultimissimi dischi elettrici, incisi con musicisti rock».

Blue in Green chiude il lato A e la registrazione del 2 marzo.

«Si sente il respiro tra una frase e l’altra, tra una nota e l’altra. Blue in Green dà spazio al silenzio e naviga, come sulla lama di un’onda, senza un tempo scandito, ma con un incedere assolutamente libero. Questo brano, anzi tutto questo disco, è magnificamente free, perché il ”tiranno” Miles Davis ha le idee chiarissime eppure lascia enorme libertà ai musicisti, tirando fuori da ognuno il meglio del meglio».

All Blues è lo strano blues in tempo di 6/8, il brano più lungo del disco.

«Una ninna nanna. Un movimento cullante sul quale puoi mettere qualsiasi melodia, purché sia pura. Anche in questo brano c’è solo l’indispensabile, come in tutto il disco. La batteria è sottilissima, quasi impercettibile. Domina la pacatezza e la semplicità è codificata: su ciò s’innesta la creatività dei musicisti. Questa è la grande lezione di Kind of blue».

Chiude il disco Flamenco Sketches.

«Leggendo il titolo qualcuno potrebbe aspettarsi ritmi latini e spagnoli. Invece nulla di tutto ciò: si sente solo, ed è questa la genialità, un profumo di Spagna in alcuni passaggi melodici, leggere inflessioni flamenche, ma ben distinguibili. C’è già, molto velato, un umore che sfocerà nei dischi successivamente incisi da Miles con l’orchestra di Gil Evans. Anche in Flamenco Sketches naturalmente domina la semplicità, mai banale, che pervade tutto il disco. Un disco – lo voglio dire da musicista – che non andrebbe imitato ma solamente interiorizzato».