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 2009  marzo 03 Martedì calendario

LA FINZIONE OCCIDENTALE

Sono stati gli errori dei governi, la febbre consumistica delle popolazioni, l´imprudente larghezza dei crediti concessi dalle banche occidentali, a precipitare la crisi economico-finanziaria dell´Europa centro-orientale? Questo sì. Ma resta la possibilità di vedere alcuni di quei paesi � i Baltici, la Romania, la Bulgaria e l´Ungheria � con le banche chiuse e le loro valute ridotte a carta straccia.
Una possibilità che rischia di respingere l´Europa indietro di vent´anni. Divisa com´era sino al 1989, quando nei paesi satelliti dell´Urss crollarono i regimi comunisti. A occidente i ricchi, a oriente i poveri. vero: al momento non si può più parlare propriamente di ricchi, perché anche gli europei occidentali stanno soffrendo la recessione, la disoccupazione, la stretta del credito e l´incertezza del futuro. Ma ci sono pochi dubbi sul fatto che all´Est la crisi si rivelerà ancora più devastante, e a sentire alcuni esperti addirittura insostenibile.
Non è quindi difficile immaginare quali umori, quanti risentimenti, stiano circolando nell´Europa Baltica, in quella orientale e in Ungheria dopo che domenica scorsa, a Bruxelles, l´Unione europea si è rifiutata di varare un piano complessivo d´aiuti per gli europei dell´Est. Un paio di quei paesi è già ricorso al Fondo monetario internazionale per un soccorso urgente, altri stanno ancora decidendo il da farsi, ma ovunque nella regione s´avvertono paurosi scricchiolii, se non sono già gli annunci d´un collasso (due governi sono del resto già caduti), nel funzionamento delle economie e nella stabilità politica.
Si può quindi parlare di molti milioni di europei oggi in fermento, disillusi, frustrati, impauriti al pensiero d´una nuova "cortina di ferro" che potrebbe calare a dividere un´altra volta l´Europa. Folle di disoccupati pronti a cercare il capro espiatorio cui addossare le responsabilità della crisi, la colpa d´aver fatto durare troppo poco le loro speranze d´una crescita economica costante. E le avvisaglie d´un ribellismo come quello che ha messo a fuoco le città greche in dicembre, o quanto meno d´una forte ventata populista, si vedono già. In Bulgaria si rafforza il Gerb, un movimento contro la corruzione di politici e funzionari ma con il linguaggio tipico del populismo, in Ungheria il Jobbik – l´ultima incarnazione dell´intramontabile estrema destra magiara – ha raccolto il 9 per cento nelle ultime elezioni amministrative. I bersagli di questi movimenti, inutile dirlo, sono i governi riformisti, le banche, le industrie multinazionali.
Per cogliere il perché di tanta tensione bisogna ripercorrere, sia pure rapidamente, la storia dell´Europa dell´Est negli ultimi vent´anni Nel 1989, dopo oltre quattro decenni di comunismo, di «fanfare, canti, grida di megafoni e declamazioni dei poeti ottimisti sull´apparizione dell´uomo nuovo» (come ha scritto Czelaw Milosz), quei paesi erano nella miseria. Le donne si prostituivano per una confezione di shampoo o un paio di calze di nylon. Nessuno si spingeva a pensare di poter possedere un giorno un´automobile. Le abitazioni, le condizioni di lavoro nelle fabbriche, i trasporti erano gli stessi di cinquanta o sessant´anni prima in Occidente. Così, la fine del comunismo, l´uscita delle truppe sovietiche, la nascita (sia pure incerta, tortuosa) dei regimi democratici, mossero ondate di speranze. Attese spasmodiche d´una vita finalmente civile. Il sogno di poter essere prima o poi come "gli altri europei", quelli che nella seconda metà degli anni Quaranta avevano avuto la fortuna di non finire sotto il tallone dell´Urss.
Beninteso, le cose non erano andate subito bene. La fragilità delle istituzioni politiche, i traumi prodotti dalle riforme economiche, resero i primi dieci anni del "ritorno all´Europa" assai gravosi e agitati. Ma poi, pian piano, affluirono gli investimenti stranieri, crebbero i consumi, mentre Praga, Budapest, Varsavia, e finanche Bucarest, Riga e Vilnius, cominciavano a somigliare alle città dell´Occidente. E non era finita. Vennero infatti le procedure per l´ingresso nell´Unione europea, e dopo qualche anno ancora l´approdo nei palazzi di Bruxelles, l´ammissione al club dei ricchi e moderni, la fine virtuale d´ogni differenza tra un´Europa e l´altra.
 dubbio che gli occidentali si siano resi conto allora di che cosa significassero, per le popolazioni dell´"altra Europa", la fine della notte comunista e l´emergere dell´aspirazione a sentirsi europei come gli altri. Ungheria, Polonia e Repubblica Cèca non dimenticheranno tanto presto, infatti, le attese estenuanti che dovettero fare nell´anticamera di Bruxelles, né le umiliazioni che a volte subirono: a cominciare da quella inflitta da Jacques Chirac, che alla contestazione di un diplomatico ungherese replicò che gli "ultimi arrivati" dovevano imparare a tacere. Erano abrasioni dolorose per paesi che arrivavano sì in ritardo all´Unione europea, ma non certo per colpa loro. Bensì a causa d´una divisione che gli occidentali avevano accettato, supinamente, sino al crollo dell´Urss.
Quel che negli anni successivi all´´89 gli europei occidentali non tennero presente come avrebbero dovuto, era l´esperienza catastrofica del comunismo nell´"altra Europa". Quel che avevano vissuto tra l´Elba e il Baltico circa cento milioni di persone. Le quali, invece, non potevano dimenticare. «La cosa certa», mi disse qualche anno fa Bronislaw Geremek, storico del Medio Evo e per vari anni ministro degli Esteri polacco, «è che i popoli dei due versanti dell´Europa restano divisi dalle diverse esperienze vissute dopo il 1945. La libertà per l´Ovest, e all´Est l´imposizione forzosa del comunismo. Un problema che sta già suscitando notevoli conseguenze politiche, e in futuro potrebbe produrne anche di più gravi».
C´era del resto un segno chiaro di come la saldatura tra le due Europe non ne avesse cancellato tutte le differenze storiche. E quel segno era la russofobia degli ex paesi comunisti. Le diffidenze, i sospetti, i timori nei confronti della Russia di Vladimir Putin. La richiesta da parte dei Baltici, dei polacchi, dei cèchi – in materia di sicurezza – di garanzie americane piuttosto che europee. La spinta a fare blocco in ambito Nato sempre con l´America di George W. Bush. L´adesione di Praga e Varsavia, in pratica senza riserve, al progetto d´uno scudo anti-missilistico sul proprio territorio.
La crisi economico-finanziaria rinfocola adesso le divisioni mai rimarginate. Quasi d´improvviso, all´Est appare infatti pericolante tutto ciò che in questi vent´anni era stato dato per certo: il libero mercato, gli investimenti stranieri, l´appartenenza all´Unione europea, la democrazia liberale. I sacrifici fatti per meritare l´ingresso nella comunità degli europei, rischiano di venire considerati inutili. Masse di operai sottopagati, rispetto ai livelli Ue, dalle industrie occidentali, non possono più sperare in salari migliori. Le classi medie appena emerse vedono svanire gli obbiettivi di consolidamento economico-sociale che s´erano prefisse. E questo mentre nessuno ignora che la finanza e l´industria dei maggiori paesi europei hanno fatto i loro più succulenti affari proprio all´Est. Un umore torbido, pericoloso, si sta così diffondendo nei paesi più colpiti dalla recessione e dal marasma finanziario. Lo stesso che dominò in Russia dopo la bancarotta del ´98: è illusorio fingersi "occidentali" quando la storia non lo consente. La democrazia e il mercato saranno adatti all´Ovest, ma all´Est non funzionano.