Andrea Scanzi, la Stampa 03/03/2009, 3 marzo 2009
LA LEZIONE DEL PROFESSOR G.
di ANDREA SCANZI
Strano paese, l’Italia. Ormai a dire qualcosa di sinistra è la destra. La volontà di consegnare Giorgio Gaber all’eternità (si spera non cristallizzante) dei libri di testo, non può che essere condivisa. Poi però si tratta di capire perché, ad averci pensato, sia stata la destra.
Per chi conosce Gaber, non è una notizia stupefacente. Persino nel settantennale della sua nascita, le attenzioni celebrative dell’intellighenzia di sinistra sono state totalmente rivolte a Fabrizio De André, consegnato a una beatificazione acritica che avrebbe infastidito anzitutto lui. Anche De André era un artista scomodo, ma (evidentemente) in qualche modo più disinnescabile dal buonismo salottiero. Con Gaber è più difficile. Gaber era spietato, innamorato del dubbio, affascinato dalla provocazione. Pasolinianamente diffidente nei confronti della Verità intoccabile. Non è un caso che, negli ultimi anni, la sinistra lo avesse dimenticato. Giovanni Raboni lo accusò di leghismo estetico, Luca Canali su l’Unità lo bollò come menestrello dei dittatori.
Gaber, a differenza di Dario Fo, non è mai riuscito sino in fondo a declinare l’io in noi. La sua «illogica allegria», quel suo saper conciliare fenoglianamente pubblico e privato, lo portarono a mettere in discussione anche la sinistra. Fu allora che scrisse Quando è moda è moda: «Non sono più compagno né femministaiolo militante/ io sono diverso e certamente solo/ quando è merda è merda/ non ha importanza la specificazione». Era il ”78, lo urlava in faccia ai movimentisti di professione. E il pubblico lo fischiava, sul palco volava di tutto. Cominciarono le accuse di populismo, qualunquismo. E lui, col suo naso infinito e la sua sigaretta eterna: «Anarcoide, casomai». La sinistra non lo avrebbe più perdonato. Mai. Men che meno dopo Io se fossi Dio, l’invettiva più dura nella storia della musica italiana.
Conoscere Gaber non è facile. A volte scriveva apposta per non piacere, bravo come nessuno a urticare. Enorme e implacabile, anzitutto sul palco. Che riempiva. Nonostante la malattia, sino alla fine. Uomo dalle mille vite, assieme al coautore di sempre, lo schivo pittore Sandro Luporini, che (chissà perché) in queste giornate di canonizzazione di sinistra e destra non appare mai. Nei Sessanta era l’artista più amato dalla tv, e c’è chi ancora - ad esempio Vincenzo Mollica - è convinto che il decennio più importante di Gaber sia stato quello: una maniera per annacquarne il messaggio. Per «facilitarlo». Ma Gaber mica voleva essere facile.
Poi la scoperta del teatro-canzone, il rifiuto quasi eremitico della tivù. Il Settanta del «libertà è partecipazione», gli Ottanta del «teatro di evocazione», nuovamente bollati dalla sinistra come bieco rifugio nel privato. Quindi il ritorno - con Tangentopoli - alla sfera pubblica. Quel suo microscopio illuminato che non si fermava mai all’accademica militanza e lo portava a rimpiangere quel tempo in cui «e pensare che c’era il pensiero». E il presente? Un’idiozia conquistata a fatica, una generazione (la sua) che aveva perso, un uomo al livello minimo di coscienza.
Gaber non era di destra. Figurarsi. Né il primo né l’ultimo. Lo terrorizzava Berlusconi e più ancora «il berlusconismo che c’è in noi»: quel desiderio di primeggiare a qualsiasi costo, l’arrivismo fine a se stesso, la dittatura del mercato. Solo che amava troppo gli smarcamenti, e troppo poco i mischiamenti, per piacere alla sinistra. Che infatti gli rinfacciava il matrimonio con Ombretta Colli, divenuta negli anni politica di Forza Italia, e che disertò il suo funerale. Permettendo che il centrodestra se ne appropriasse. In maniera indebita.
Il risultato è un convulso tirare la giacca, ora sincero e ora no. C’è Giulio Casale che con fedeltà tibetana riporta in scena Polli di allevamento; c’è Eugenio Allegri che recupera il quasi inedito Il Dio bambino; c’è Neri Marcorè che canta a teatro Lo shampoo e altre gemme. C’è Fausto Bertinotti, e non solo lui, che si commuove ascoltando Qualcuno era comunista e quel volo un tempo utopico e ormai rattrappito dei «gabbiani ipotetici» della sinistra. Ma al tempo stesso, ogni estate c’è un Festival Gaber dove trovi Ligabue come Baglioni, Vittorio Feltri che dice «Gaber è il mio artista preferito», Luca Barbareschi che interpreta Il caso di Alessandro e Maria. E Beppe Grillo, altro «qualunquista», che lo ritiene maestro e come lui non si sente italiano, «ma per fortuna o purtroppo lo sono». Tutto e il contrario di tutto.
La sua produzione può essere letta come un disperato tentativo di appartenere a qualcosa, salvo poi scoprire (ogni volta) che Gaber era solo di Gaber. E di chi lo ascoltava, inseguendone i monologhi come fossero balsamo per cervello e cuore. Se si fosse ritrovato sui libri di scuola, avrebbe arrossito. Sperando però, al tempo stesso, che i ragazzi ne capissero, o anche solo intuissero, l’irrinunciabile anelito alla speranza. Alla libertà. Al riso, al pianto. Quella sua benedetta capacità di indignarsi, che dopo un monologo ti rimaneva attaccata alla pelle, e che oggi chissà dov’è finita.