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 2009  marzo 03 Martedì calendario

AZIZ, L’INCANTATORE DELL’OCCIDENTE

di IGOR MAN -
Quella che il presidente Obama chiama «normalizzazione» compie, in Iraq, un passo in avanti: Mikhail Yuhanna, nome di battaglia Tareq Aziz, ministro degli Esteri e vice premier iracheno, è stato assolto dal tribunale speciale che mandò a morte Saddam Hussein. Tareq Aziz, cristiano-caldeo, 72 anni sempre portati male, ancorché sotto giudizio anche per «omicidio-politico», sarebbe già ai «domiciliari», in una villetta della «zona verde» di Baghdad. A differenza della maggior parte dei paesi islamici (arabi in particolare) gli iracheni sono faticatori e attenti alla politica. Non erano pochi quelli che si è usi definire «intellettuali-frondisti»: Saddam non era amato ma rispettato lo era. Governava col bastone (la tortura) e la carota (sussidi in contanti), lasciava le briglie sul collo degli scatenati del clan di Tikrit (città natale del raîss) ma una sorta di casereccio Welfare rabboniva gli iracheni sino alla rassegnazione.
Invaso l’Iraq, accusato di possesso del nucleare (una «bufala») gli americani commisero due errori. Fatali. Sciolsero immediatamente l’esercito iracheno col risultato di creare un’armata brancaleone fonte di disastri senza fine (l’Iraq è tuttora un fiammifero acceso allo sbocco del greggio). Sciolsero il partito unico Baas volendo ignorare (o ignorando davvero?) che non era una cattedra ideologica bensì la macchina (dalla scuola al fornaio, dal traffico all’università) che faceva funzionare il paese.
Come sappiamo, il vuoto bruscamente creato da epurazioni improvvide solo adesso sta riducendosi, e faticosamente. L’opinione pubblica sta scoprendo la realtà delle cose, la pace interna germoglia dopo una lunga parentesi d’orrore e di errori. La «grazia» concessa a Tareq Aziz porta l’impronta del presidente Obama. Nel giusto momento (il conto alla rovescia è già cominciato) i GI lasceranno l’Iraq a se stesso, con l’intenzione di giuocare la partita decisiva sul tavolo rosso (perché insanguinato) di quel dolcissimo ma disgraziato paese chiamato Afghanistan. (Che Dio assista i nostri soldati in servizio laggiù: non sarà una passeggiata).
In fatto la crisi mesopotamica nasce con la folle invasione del Kuwait nell’agosto del ”90 – dopo un estenuante braccio di ferro; la reazione americana arriva il 17 di gennaio del ”91: Desert Storm. A ridosso della guerra, il 10 di gennaio del 1991, si incontrano a Ginevra il segretario di Stato Baker e Tareq Aziz. «Si parla di pace con le pistole senza sicura», dirà Baker. Tutta la stampa internazionale è a Ginevra, si giuoca la dernière chance della pace.
Di giusta statura, i capelli candidi, baffi neri (tinti) che spiccano sul volto pallido, gli occhiali spessi, Tareq Aziz sembra la controfigura di Groucho Marx. Ma la somiglianza è solo esteriore. L’unico non musulmano del regime iracheno è un uomo freddo, duro come l’ossidiana, l’ideologo inflessibile del Baas. Dicono che abbia «spiegato» lui a Saddam il socialismo arabo ideato dal siriano Michel Aflak, anch’egli cristiano. Dicono che lui e Saddam giuocano al poliziotto buono, al poliziotto cattivo – cambiandosi le parti a seconda del momento. Ma Tareq Aziz col suo elaborato inglese condito non senza civetteria di citazioni da Shakespeare e Milton quando non da Cervantes (sa pure lo spagnuolo) coi suoi modi garbati e quella sfumatura di sorriso ironico sulle labbra d’ostinato fumatore di sigari cubani, ha sempre incantato la stampa internazionale che gli ha subito appiccicato l’etichetta di moderato. Il resto lo ha fatto il Vaticano che, oggi, dopo cinque dolorosi anni, lo vede tornare a casa. Non senza commozione.
Tareq Aziz è l’uomo che ha condotto la grande accostata del battello iracheno dall’approdo (ideologico) sovietico verso il più pragmatico porto americano, quando la guerra con l’Iran aveva messo in ginocchio il regime di Baghdad. E infatti, allorché Saddam invase il Kuwait, di Tareq non si seppe più nulla durante giorni e giorni. Poi ricomparve accanto al raîss smentendo le voci che lo volevano finito sulla forca. Purgò ai «domiciliari» la sua sbornia di americanismo.
Fu Tareq a «suggerire» che poiché si era in guerra bisognava indossare la divisa ch’è, poi, la copia conforme di quella dei vecchi padroni inglesi. Tareq e compagni partirono per la Svizzera infrasciamati nell’uniforme kaki. Si cambiarono in volo due ore prima di Ginevra. Indossarono gli abiti borghesi fatti al Cairo da un sarto di origine triestina (israelita), coi pantaloni sbracati e la giacca che sbecca sul collo.
Dopo l’inutile conferenza stampa, lunga, estenuante, con Baker, lo sentimmo dire a un suo tirapiedi: «La cioccolata per mia moglie, i sigari per me, mi raccomando. Se perdo questa occasione dove la trovo più?», e sorrise come un vecchio ragazzo triste che l’ha fatta grossa.
Il corrispondente di Le Monde, quello di Newsweek e chi scrive, bloccarono Tareq Aziz mentre stava eclissandosi per la porta della cucina. Protestò d’aver detto «tutto il possibile per la pace» ma infine si arrese alle nostre insistenze. Fissando un punto lontano, sopra le nostre teste, sillabò: «Gli americani non hanno capito che non sarà un film. Sarà una guerra interminabile e sanguinosa».