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 2009  marzo 01 Domenica calendario

ROTTAMI LA CIVILTA’ DELL’USA E GETTA SOFFOCATA DAI SUOI RIFIUTI


Dicono che, ad occhio nudo, dallo spazio, fino a qualche anno fa, si riuscissero a distinguere, sulla superficie della Terra, soprattutto due opere dell´uomo. La prima è la Grande Muraglia cinese. Una linea sottile, però, incerta. L´altra, invece, è una macchia dai contorni irregolari, ma inconfondibile: Fresh Kills, Staten Island, New York. La più grande discarica a cielo aperto del mondo, in cui, per anni, ogni giorno, si sono rovesciati dodicimila tonnellate di rifiuti assortiti. Con un po´ di pazienza, appena più a sinistra, giusto a metà strada fra Fresh Kills e la Grande Muraglia, dallo spazio si può individuare un altro segno della presenza umana, più grande dell´una e dell´altra. Una enorme chiazza di mille colori: Garbage Patch, la chiamano, più o meno "il posto della monnezza". qui, nel mezzo del Pacifico settentrionale, che il gioco inconsapevole delle correnti raduna a galleggiare placidamente la plastica raccolta dal mare.
Garbage Patch è più grande del Texas: centinaia di migliaia di chilometri quadrati, lastricati di bottiglie, bambole, paperelle, contenitori vari, pezzi sfusi e, soprattutto, buste, buste, buste. Una distesa immane, destinata a perpetuarsi nei secoli, quanto durano i polimeri della plastica, e già punteggiata di carogne. Perché, come spesso capita con le cose che ci lasciamo spensieratamente alle spalle, l´impatto è devastante: dicono gli esperti che un milione di uccelli marini e centomila fra foche e tartarughe muoiono ogni anno perché restano impigliati nella plastica o la inghiottono.
Grosso uguale importante: è un parametro un po´ rozzo, ma la gerarchia di quel che si vede dallo spazio almeno fa giustizia dell´idea che i rifiuti siano qualcosa di cui ci possiamo serenamente dimenticare nel momento in cui li abbiamo prodotti. Al contrario, sono una emergenza permanente, che assorbe risorse crescenti. Fresh Kills è stata chiusa qualche anno fa e trasformata in un parco, ma il problema è diventato solo più complicato. Smaltire dodicimila tonnellate di rifiuti significa riempire seicento camion da venti tonnellate l´uno: una fila lunga quindici chilometri. «Praticamente - commentò a suo tempo il vicesindaco di New York, Joseph Lhota - un´operazione militare su base quotidiana». La metafora militare funziona, perché, in effetti, i rifiuti ci assediano. La civiltà del Ventunesimo secolo non è, come tutte quelle che l´hanno preceduta, seduta sui propri scarti. Ci è immersa. A volte, come a Napoli l´anno scorso, se li trova letteralmente fino alle ginocchia. In termini planetari, ce l´abbiamo non fino al collo, ma ben sopra alla testa.
Le orbite intorno alla Terra sono ormai autostrade intasate in cui i novecento satelliti attivi viaggiano nel mezzo di una grandine di detriti e rottami di lanci precedenti. Il recente scontro fra un satellite Iridium e un vecchio Cosmos li ha moltiplicati, ma è solo strano che non sia avvenuto prima. Statisticamente, ognuno dei satelliti in attività rischia due o tre volte al giorno di scontrarsi con un rifiuto spaziale. All´ultimo conto, gli oggetti in orbita sono oltre centomila. Di questi, poco meno di diecimila sono più grossi di dieci centimetri. E tutto viaggia alla velocità di migliaia di chilometri l´ora. A quella velocità, un lembo di vernice può creare un cratere nel vetro di un oblò. E un pezzo di ferro da dieci centimetri ha la forza esplosiva di venticinque candelotti di dinamite. Il guaio è che, su questa pista alla Mad Max, non ci sono solo i satelliti spia e quelli scientifici. C´è la rete su cui rimbalzano il traffico telefonico e le trasmissioni tv. La partita di stasera e la telefonata alla fidanzata sono legati al filo sottile della capacità del satellite di avvistare e schivare gli ostacoli che incontra.
Qui a terra almeno i rifiuti stanno fermi. Ne produciamo oltre due miliardi di tonnellate l´anno, che diventeranno tre miliardi nel 2030. Nei paesi ricchi, ognuno di noi produce, in media, quasi un chilo e mezzo di rifiuti al giorno. Se vi sembrano pochi, provate a vederli su una proiezione annua. Ogni italiano produce, in media, mezza tonnellata di rifiuti l´anno. Ci battono gli americani, che sfiorano gli ottocento chili. una quantità aumentata a velocità vertiginosa negli ultimi decenni, man mano che si affermava quella che un ambientalista famoso come Lester Brown chiama «la civiltà dell´usa-e-getta». Non pensate solo ai rasoi e ai tovagliolini di carta. L´ottanta per cento dei prodotti americani, secondo una statistica, viene usato più o meno a lungo ma una volta sola. Non è colpa del fato. Un modesto analista, Victor Lebow, scrivendo su una oscura rivista specializzata nel commercio al dettaglio, ne ha dato la descrizione in qualche modo definitiva: «La nostra economia, enormemente produttiva, richiede che facciamo del consumo il nostro stile di vita, che trasformiamo l´acquisto e l´uso delle cose in un rituale, che cerchiamo la soddisfazione spirituale, la gratificazione dell´ego nel consumo. Bisogna che le cose vengano consumate, esaurite, scartate, sostituite ad un ritmo sempre più veloce». Era il 1955. La profezia di Lebow si è avverata, siamo entrati nella società dei consumi. E adesso ne paghiamo le conseguenze. I rifiuti si vendicano, diventando una preoccupazione individuale, quotidiana, pressante.
Lo spiega un amministratore comunale inglese, Paul Bettison: «Spiace distruggere le illusioni della gente, ma è finito il tempo in cui potevano mettere la spazzatura dentro un sacco nero e, poi, durante la notte, la fatina della spazzatura sarebbe venuta e storia finita. La fatina della spazzatura è morta». Al suo posto, mentre veniamo alle prese con l´obbligo, la responsabilità, l´assillo del riciclo, comincia a materializzarsi l´immagine del Grande Fratello della Ruera, dal nome che, nella Milano di una volta, aveva il buco sul muro del pianerottolo in cui si scaricava la spazzatura quotidiana.
Nell´Inghilterra di Bettison, molte città raccolgono ormai l´immondizia solo due volte al mese. E in quantità prefissate. Spesso, raccontano gli abitanti, bisogna saltare vigorosamente sui sacchi per ridurli alle dimensioni necessarie per entrare nei contenitori prescritti. Un camionista di Whitehaven è stato multato di quasi duecento euro per non esserci riuscito e avere lasciato il coperchio del contenitore aperto di dieci centimetri. A Yokohama, in Giappone, il libretto di istruzioni sul riciclo è lungo 27 pagine ed elenca 518 rifiuti diversi. Il rossetto va nei combustibili, il tubetto del rossetto in "piccoli metalli". Un calzino solo, nei combustibili. Due calzini negli abiti usati, a condizione però che siano uguali. Niente scherzi. Bisogna scrivere il proprio codice ben chiaro, con il pennarello, sulla busta, per consentire i controlli.
I rifiuti sono arrivati tanto in primo piano, nella nostra vita, da diventare una importante attività economica. Spesso miserabile. Dandora, alla periferia di Nairobi, è una discarica a cielo aperto intorno a cui ruota una comunità di seicentomila persone che, a rischio della salute, scavano nelle duemila tonnellate di spazzatura che arrivano ogni giorno per ricavarne di che vivere. Lo stesso accade nelle villas miserias argentine, nelle favelas brasiliane, negli slums indiani e, su piccola scala, nei pattugliamenti degli extracomunitari intorno ai cassonetti romani. Ma è anche un hobby. In America lo chiamano "mongo". il vecchio giocattolo, il televisore d´epoca, il tavolo con le sedie spaiate, il servizio di piatti da cinque di cui qualcuno si è liberato e di cui qualcun altro si riappropria per portarselo a casa o per rivenderlo su E-bay.
Sempre più, la spazzatura alimenta centrali che riscaldano e illuminano le case. La sua parte più nobile, il rottame, è il cuore di un´industria in proprio, a tutto tondo, che la rottamazione delle macchine, varata per rianimare l´anemico mercato dell´auto, si prepara a rilanciare. Sono numeri che incutono rispetto: l´industria del rottame, a livello mondiale, ricicla 145 milioni di tonnellate ogni anno, il sette-otto per cento della spazzatura globale. Negli Usa, il 66 per cento dell´acciaio, il 33 dell´alluminio, il 50 della carta viene da materiale di recupero.
Il paradosso è che, nella società dei consumi, praticamente ogni cosa che ci circonda è sulla via di diventare scarto o rottame. Ma quello di cui noi ci liberiamo, spesso con un sospiro di sollievo, ha molte volte un valore economico significativo. Secondo il servizio geologico degli Stati Uniti, una pila di circuiti integrati estratti dai computer contiene più minerale della stessa quantità di minerale grezzo. E costa meno: una tonnellata di resina sintetica (da cui si fa la plastica) costa 1.420 dollari. Una tonnellata di rifiuti di plastica, 515 dollari. Ecco perché i grandi paesi manifatturieri, come la Cina, sono così ghiotti dei nostri rottami, in particolare dell´elettronica. Il problema è che i gadget - il pc, la tv, il telefonino - che affollano la nostra vita sono innocui finché integri, pericolosi quando li apri. Il tubo catodico di un televisore contiene un chilo di piombo. Se è a schermo piatto, c´è il mercurio. I pc sono ricchi di cadmio, che è cancerogeno. Infatti, l´Europa ha vietato il traffico dei rifiuti high-tech. Questo non impedisce - come ha recentemente documentato Greenpeace - un fiorente contrabbando. E, comunque, l´ottanta per cento degli scarti elettronici americani finisce in Cina o in Africa.
Dove vengono, naturalmente, riciclati a caccia dei loro materiali ancora preziosi. Ma non c´è nulla di positivo e virtuoso in questo recupero che limiti lo spreco planetario. Se Dandora, con le sue migliaia di persone che frugano nell´immondizia, evoca le immagini di una miseria atavica, Guiyu, nel sud della Cina, sarebbe parsa familiare a Dickens. La logica economica è indiscutibile. Un contadino cinese guadagna duecentosessanta dollari l´anno coltivando il campo, cento dollari al mese frugando nel ventre dei computer. Tranne che si gioca la vita. L´ottanta per cento degli abitanti di Guiyu vive intorno al riciclaggio dell´high-tech, processando circa un milione di tonnellate l´anno di monitor, tastiere, fax, stampanti, cartucce, hard disk, telefonini. Processarli è un lavoro domestico. Nel video di una organizzazione umanitaria, si vede una donna che gira lentamente in una padella una pila di circuiti integrati. Quando il calore li ha ammorbiditi abbastanza, pilucca a mani nude i microchip che contenevano e li butta in un secchio. Un uomo si avvicina e ci rovescia sopra una pentola di acido. Quando la nube tossica si è dissolta, si vede nella pentola una sfoglietta d´oro. Intorno, bruciano cavi elettrici, da cui si ricava il rame. Ma il pvc che li ricopre, bruciato, sprigiona diossina. A Guiyu la percentuale di diossina nell´aria è la più alta al mondo. Dunque, dove avete buttato la vecchia tv?