Paolo Panerai, MilanoFinanza 28/2/2009, 28 febbraio 2009
BASTANO PER RIPARTIRE?
Il ristorante Le Cirque di Sirio Maccioni, nel nuovo Bloomberg building sulla Lexington avenue, è pieno e soprattutto di giovani. Sia a pranzo che a cena. «Non abbiamo mai lavorato così tanto come durante la crisi», spiega Maccioni. «Il segreto? Siamo il ristorante con il massimo punteggio dato da The New York Times, ma a pranzo abbiamo creato un menu fisso da 24 dollari. Anche chi è ricco, oggi a New York, vuole spendere poco. E anche la sera, con oltre 300 coperti e con il miglior mondo newyorkese ai nostri tavoli, i prezzi sono contenuti. Chi tiene alta la qualità e relativamente bassi i prezzi, passerà indenne la crisi. Sperando, naturalmente, che non sia lunghissima».
Le Cirque è sempre stato un termometro molto preciso sull’andamento dell’economia negli Stati Uniti. Ci furono gli anni dopo l’11 settembre, in cui il pudore degli americani super ricchi li spingeva a non esibire più come quando, negli anni di Ronald Reagan, per esempio, Malcom Forbes padre e i suoi figli arrivavano ognuno a Le Cirque con una propria limousine. E a Le Cirque la bella gente, da Woody Allen a S.I. Newhouse, il padrone di Condé Nast, ha continuato ad andare ma con meno frequenza, perché uscire troppo non era intonato al momento più triste degli Stati Uniti.
Oggi, andare a Le Cirque o da Nobu, nel nuovissimo ristorante della 57th, quasi di fronte alla Libreria Rizzoli, è diventato un modo anche per reagire alla crisi, per sentirsi vivi. Vivi ma non spendaccioni, anche se il conto in banca ha resistito alle truffe di Bernie Madoff o al fallimento della Lehman e al quasi fallimento di Merrill Lynch; oppure se momentaneamente si è perso il posto (momentaneamente, perché è nel Dna degli americani non drammatizzare il licenziamento, non avendo mai avuto le sicurezze sociali del Vecchio continente).
Certo, molti miti stanno crollando. Donald Trump, l’immobiliarista dalle mani d’oro, ha visto fallire le sue case da gioco di Atlantic City; ma non è la prima volta che Trump cade, fallendo, e poi si rialza.
Piuttosto, a colpire è il senso di colpa di quasi tutta la nazione per la consapevolezza che Wall Street è stata la causa della disastrosa crisi in cui tutto il globo è caduto. Quando se ne parla, gli americani, che sono abituati a coprire con un’immensa bandiera la bara dei caduti nelle varie azioni da guardiani del mondo, non possono fare a meno di scusarsi e spesso si meravigliano che il mondo abbia reagito in maniera così composta agli errori drammatici delle banche americane. Le quali non solo hanno creato investimenti folli e artificiosi ma hanno imposto al mondo le loro regole sui profitti e i guadagni assurdi dei manager, dimenticandosi, come ha osservato Giulio Tremonti, che le società di capitali si basano non solo sul conto economico (per di più trimestrale) ma anche sul conto patrimoniale. Cioè la solidità o meno del patrimonio rispetto alla vacuità del risultato trimestrale per incassare i bonus e le stock option.
Alcuni dati tuttavia aiutano a non drammatizzare. Per esempio, la grave crisi immobiliare è vera, ma chi pensasse che i prezzi sono crollati si sbaglierebbe: anche a Manhattan il mattone è duro a scendere. Hanno perso il 30% le case da 5 milioni di dollari, ma le case fra i 200 e i 600 mila dollari sono lì ferme: non si vendono o se ne vendono poche, ma i prezzi non calano.
Ciò di cui finalmente gli americani sentono il bisogno (ed è per questo che Barack Obama ha vinto diventando presidente) è maggiore sicurezza sociale, in una parola maggiore equità. In questa crisi fanno orrore i casi di chi non può farsi curare perché prima di entrare in ospedale deve depositare la sua carta di credito. E se non ce l’ha, può anche morire. Per questo, nel suo primo discorso alla Camera e al Senato uniti, Obama ha usato parole inequivocabili: non dovrà più accadere che un bambino nasca senza essere coperto da un’assistenza sanitaria garantita; faremo, ha detto, un’assicurazione pubblica o ci sarà un servizio sanitario pubblico.
Coerentemente, ha iniziato la guerra agli stipendi, ai bonus, alle stock option assurde. E la sua azione è materialmente supportata dal procuratore di Manhattan, Andrew Cuomo, figlio dell’ex governatore che avrebbe potuto candidarsi in passato alle presidenziali per il Partito democratico ma che ha sempre avuto paura che l’essere italiano, alla fine, gli sarebbe costato attacchi inauditi. Ma suo figlio, una generazione americana in più, avrà sicuramente una chance in futuro con la lotta che sta conducendo contro i super manager, a cominciare dall’ex presidente di Merrill Lynch che prima di andarsene si è fatto pagare bonus stramilionari e che il giovane Cuomo ha messo sotto torchio per giorni, facendo prevedere per lui la galera.
Il modesto ma solido presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, ha cambiato tono: non più profezie (amaramente avveratisi) di fallimenti, ma alcune parole di fiducia, come quelle di mercoledì 25 febbraio, quando ha detto che le autorità americane hanno tutti gli strumenti per battere la crisi, per gestirla al meglio, essendo il Paese, a suo giudizio, sulla strada giusta per rinascere. Wall Street, la cui instabilità durerà ancora a lungo, non aspettava altro e ha celebrato le parole del banchiere dei banchieri, nonostante la sua autorevolezza non sia altissima, con una risalita di oltre il 3%.
Sono solo prove di ripresa; probabilmente ci saranno altre pesanti cadute; i dati dell’andamento dell’economia saranno negativi ancora per alcuni trimestri, ma intanto in mezzo alla tempesta qualche raggio di sole buca la cortina di nubi.
La pensa allo stesso modo anche Robert Thomson, il giovane (48 anni) direttore di The Wall Street Journal e di tutte le altre pubblicazioni di Dow Jones nella gestione di Rupert Murdoch. Miglior giovane giornalista d’Australia, direttore (con successo) dell’edizione americana di Financial Times, quando la ceo Marjorie Scardino decise, da americana a Londra, di passare all’attacco nel suo Paese; poi in sabbatico perché proprio la Scardino gli preferì un altro come direttore di Ft a Londra, ma subito dopo chiamato a The Times da Murdoch per lanciare la provvidenziale edizione tabloid, Thomson ha condotto in queste prime settimane del 2009 una sua personale inchiesta presso molti ceo delle maggiori corporation americane e ha maturato questa idea: la crisi durerà ancora almeno 12 mesi, ma chi saprà resistere avrà poi davanti a sé delle opportunità straordinarie. Ci sarà un ritorno alla tradizione migliore e alla moderazione, e anche nel campo editoriale ci saranno delle sorprese: chi pensa che la carta sarà surclassata da internet, sbaglia: ci sarà un ritorno di pubblicità proprio da internet (che oggi vale il 10% degli investimenti totali americani) ai giornali. Per una ragione molto semplice: 1) chi usa internet con il pc o con il telefonino, nell’80% dei casi si accontenta di leggere titolo e sommario della notizia, quindi ha un approccio superficiale; 2) internet stimola al multitasking, alla navigazione continua, allo spostamento da un sito all’altro, al punto che la pubblicità, come gli ha spiegato il ceo di Coca-Cola, rischia di passare quasi inosservata; 3) al contrario, chi legge i giornali, al massimo sorseggia un caffè o beve appunto una Coca, ma rimane sulla pagina dove c’è l’annuncio pubblicitario almeno per il tempo necessario a vederlo e assorbirlo.
Per questo Murdoch che pure, con News Corp possiede tutti i media, si è rivolto ai suoi lavoratori incitandoli a puntare tutto sulla qualità. Non importa che il numero delle pagine dei giornali sia quasi la metà di un anno fa, che quasi tutti i giornali siano diventati sogliole invece che bistecche: l’importante è che quanto c’è dentro sia interessante, qualitativamente alto, tale da soddisfare solo e soltanto gli interessi dei lettori; idem per i telespettatori e anche per chi preferisce internet, che quindi diventa uno dei mezzi, non il mezzo che ammazza tutti gli altri, come improvvisamente aveva pronosticato il giovane editore di The New York Times, Arthur Ochs Sulzberger Jr, sostenendo che entro cinque anni non ci sarebbe più stata un’edizione cartacea del più famoso giornale generalista al mondo.
La crisi quindi scaccia la superficialità e la non qualità. Quindi ha anche funzioni benefiche. sempre stato così. Il vero problema, anche negli Stati Uniti, dove pure la gente è più semplice, meno cerebrale che nel Vecchio continente, è come far ritornare la fiducia. E certo leggere, giovedì 26, che Obama con il suo piano di aiuti ha fatto segnare al deficit di bilancio americano la cifra spaventosa di 1.750 miliardi di dollari, il 12,3% del prodotto interno lordo americano consente ai profeti di sventura di predicare tempeste. Il che non aiuta certo. Specialmente perché al debito dello Stato in Usa si somma quello delle famiglie, mentre in Italia facendo il consolidato tra il debito dello Stato e il risparmio delle famiglie, si ha comunque un saldo positivo. Ma come ha detto Obama il vero errore, vista la dimensione della crisi, sarebbe stato non fare, piuttosto che fare troppo.
E presentando il suo budget decennale il presidente non è arretrato di un metro rispetto alle promesse della campagna elettorale: aumento delle tasse per i ricchi, diminuzione per le classi medie, investimenti nella salute, nell’educazione, nelle energie pulite, taglio delle sovvenzioni agli agricoltori che hanno un reddito superiore a 500 mila dollari e alle banche che facevano credito ai college. Un budget che ha fatto scrivere al New York Times che in fin dei conti la ricetta di Obama non è altro che un tentativo di replica della reaganomics, mettendo in tal modo in difficoltà l’opposizione repubblicana che ancora vive nel mito degli anni di Ronald Reagan. E il mondo deve sperare che il primo presidente di colore degli Stati Uniti abbia ragione. Certamente, alla fine di febbraio, nonostante le numerose incertezze e i rischi di fallimento di altre banche o grandi corporation come la GM, il clima che si respira negli Stati Uniti è migliore, di maggiore speranza di quando Obama vinse clamorosamente sul candidato repubblicano. Poiché gli Usa hanno sempre anticipato il resto del mondo di alcuni mesi, nel bene e nel male, anche in Europa e in Italia è tempo di ragionare e di constatare che il mondo non è finito.
P.S. una notizia importante sul piano della giustizia, quella vera, che Angelo Rizzoli jr. abbia visto cancellata dalla Cassazione la condanna che aveva ricevuto di concorso in bancarotta dell’ex azienda di famiglia, la Rizzoli-Corriere della Sera. Ho scritto più volte e lo voglio ripetere qui: Angelo è stato scippato della proprietà della casa editrice fondata da suo nonno. Certamente aveva commesso molti errori, ma la tempesta giudiziaria che fu scatenata contro di lui fino al carcere consentì a più di uno degli attuali azionisti di Rcs di impossessarsi per una cifra ridicola (5 miliardi di lire) del primo gruppo editoriale italiano. Arrivarono al grido, quello di Giovanni Agnelli, che tornavano in via Solferino per bonificare. vero c’era stata la P2, che andava eliminata. Ma oltre a compiere un clamoroso affare (pochi mesi dopo Agnelli fece vendere al suo amico Jean Luc Lagardère di Matra il 10% di Rcs alla cifra astronomica di 100 miliardi di lire, quindi con valutazione di 1.000 miliardi di lire), quello scippo fu anche l’occasione per rifilare alla Rizzoli la Fabbri con un contratto di factoring sui crediti che sulla carta era pro soluto, ma che nella realtà era pro solvendo, i cui rischi cioè restavano in capo alla Fabbri, come si scoprì nella botola segreta che era stata creata nella sede di Gemina, una delle pupille di Enrico Cuccia. E per quei fatti solo il direttore generale di Gemina, Felice Vitali, ha fatto qualche giorno di carcere, riparando subito dopo, ricoperto d’oro, a Londra. Una vergogna che ora la giustizia resa ad Angelo Rizzoli scalfisce appena e certamente non cancella. Perché, chi restituisce la sua azienda ad Angelo?