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 2009  febbraio 28 Sabato calendario

LE AZIONI REDDITIZIE NEL LUNGO PERIODO? «SONO UNA FAVOLA»


Vorrei esprimere un profondo dissenso contro il credo secondo il quale nel lungo periodo l’investimento azionario risulterebbe premiante rispetto ad altre asset class (corporate bond, immobili, oro eccetera). Non solo sono grato di non avere seguito tale principio nell’orientare i miei investimenti durante l’ultimo decennio ma, tuttora, nonostante l’emergere (finalmente) di valutazioni indubbiamente attraenti su basi "fondamentali", dubito che il medesimo possa fornire un’indicazione attendibile anche per il prevedibile futuro.
Ciò per due motivi fondamentali:
nell’immediato il movimento tecnico degli indici continua a essere dominato da forze fortemente speculative (si pensi alle cadute seguite da rimbalzi giornalieri vorticosi, analoghi a quelli degli anni 30) che condizionano la quotazione dei singoli titoli in misura superiore a qualsiasi valutazione fondamentale. Per quanto possa apparire attraente in base a sani criteri di valutazione e comparazione, difficilmente un titolo può sottrarsi all’onda lunga degli indici, quasi sempre strettamente correlati tra di loro e ancora infallibilmente ancorati alla performance di Wall Street.
Pertanto l’analisi tecnica del mercato continua a fornire le risposte più convincenti in merito alle prospettive future e l’andamento degli indici rimane condizionato da un movimento essenzialmente speculativo dove la rottura di un "supporto" o il superamento di una "resistenza" costituisce la forza trainante del mercato a prescindere da valutazioni fondamentali (naturalmente nulla vieta di investire in base all’analisi tecnica ma ciò non ha nulla a che fare con l’investimento di una quota stabile del patrimonio per il medio-lungo periodo); guardando a un futuro più lontano occorre rilevare che da almeno 15 anni il capitalismo beneficia di condizioni estremamente favorevoli all’investimento azionario, particolarmente per quello che riguarda la distribuzione dei redditi che ha visto i profitti aziendali raggiungere massimi storici in quota percentuale del reddito. verosimile che l’evolversi della crisi in atto possa mettere in discussione tale assetto comportando in un futuro non immediato una significativa riduzione della quota dei profitti e/o un possibile ritorno di spinte inflazionistiche, quale conseguenza delle odierne politiche di stimolo, circostanze che graverebbero negativamente sull’investimento azionario.
Per quanto concerne le analisi statistiche di lungo periodo, in cui la regola può apparire veritiera, occorre non dimenticarsi la collocazione temporale del periodo pluriennale prescelto rispetto alla propria vita lavorativa (si pensi ai cittadini americani che proprio ora debbono attingere ai propri investimenti previdenziali) e che nel lunghissimo periodo potremmo anche non esserci.
Andrea Slusarek - (Torino)
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In finanza contano i numeri, l’avidità e la paura. Ma le ideologie sono irrilevanti. Le sue riflessioni sono molto interessanti signor Slusarek, ma alla fine la decisione di non investire in azioni con un orizzonte di lungo periodo dovrebbe essere frutto della sua personale tolleranza alle perdite, più che di un dissenso contro il «credo» dell’equity risk premium, ossia della superiorità dei rendimenti azionari su quelli obbligazionari.
Perché l’equity premium non è un «credo» al quale è opponibile un altro «credo»: è un fenomeno storico verificato empiricamente nei secoli passati in vari mercati azionari. I disastrosi 12 anni alle nostre spalle (ricordo che l’indice Dow Jones è tornato in settimana ai livelli del maggio 1997) di per sè non sono un evento senza precedenti. Periodi più inutili di questi di questi si erano già verificati (alla fine del 1982 l’indice Dow Jones era agli stessi livelli dell’inizio del 1966), senza per questo inficiare la fondatezza empirica dell’equity premium misurato su archi temporali significativi. Tra il 1871 e il 2001, su finestre trentennali, è vero che l’equity premium delle azioni Usa è stato fortemente variabile (compreso tra l’1,23 e il 10,51% annualizzato), ma è sempre stato positivo. La fonte è Bryan Taylor, presidente di Global Financial Data. William N. Goetzmann e Roger G. Ibbotson nella loro monumentale opera del 2006 «The Equity Risk Premium. Essays and Explorations», pur con varie limitazioni, dimostrano l’esistenza di un equity premium storico negli Stati Uniti anche nei 133 anni compresi tra il 1792 e il 1925 (per una media geometrica del 2,83%). Elroy Dimson, Paul Marsh e Mike Staunton della London Business School hanno calcolato che tra il 1900 e il 2008 l’equity premium sui titoli di Stato a breve termine dell’Italia è stato del 5,8% annuo, quello del Giappone del 5,9%, mentre per la Francia è stato del 6,2% annuo. Nei Paesi che hanno avuto i ritorni azionari maggiori gli equity premia sono stati inferiori, rispettivamente pari al 4,0% annuale in Uk, 5,0% in Usa e 5,2% in Svezia.
Lei si concentra sulla speculazione come fattore determinante dei movimenti di Borsa. Ma la speculazione e gli speculatori sono sempre esistiti, e ciononostante i mercati avanzati, come si è visto, hanno generato un equity premium. Poi, lei sottolinea le condizioni favorevoli del capitalismo «da almeno 15 anni»; ma se così fosse non si capirebbe perché gli ultimi 12 anni di Borsa sono stati tra i peggiori della storia. Anche qui serve cautela: per tutto il secolo passato il capitalismo ha avuto i suoi alti e bassi, ma ciò non ha mai smentito del tutto l’equity premium. E la minaccia dell’inflazione, se mi consente, riguarda più le obbligazioni tradizionali a cedola nominale che non le azioni, che sono diritti su beni reali (le aziende).
Ritengo quindi, caro signor Slusarek, che posizioni – del tutto rispettabili – come la sua siano anche condizionate dell’emozione del momento. Per quanto ne so io, anche il grande successo di azionisti di lungo periodo come Warren Buffett potrebbe essere dovuto a un insieme di circostanze favorevoli. Ma per chi vuole difendere e far crescere il capitale al netto dell’inflazione non vedo grandi alternative a immobili, bond reali e – perché no? – azioni.



BTpi, i calcoli sul valore se tenuto fino a scadenza
Se acquisto un BTp con scadenza nel 2019, indicizzato a 93, e nei prossimi 10 anni c’è deflazione, se lo vendo a 93 non perdo niente salvo quel 2,4% di rivalutazione già maturato. Ma se lo tengo fino alla scadenza naturale mi viene pagato per 100 e ci guadagno quindi 7-2,4 = 4,6: la ritenuta fiscale del 12,50% è sul 4,6? In caso di rivalutazione per inflazione del 1,10 alla scadenza non ottengo 93x1,10 ma 100x1,10, quindi 110?
Maurizio - (via e-mail)
- Il BTp indicizzato all’inflazione con scadenza 15 settembre 2019 e cedola lorda al 2,35% fu collocato a fine maggio scorso, con inizio godimento 15 marzo 2008. A metà marzo, il coefficiente d’indicizzazione era pari a 1, aumentato già a 1,00996, per valuta 28 maggio, quando il prestito fu emesso a un prezzo di 99,786. L’incerto andamento dei mercati finanziari in difficoltà a causa delle nebulose prospettive economiche, si è trasferito sul prezzo delle emissioni obbligazionarie, oltre che sui prezzi delle azioni. Il movimento dei tassi d’interesse, spiega Angelo Drusiani di banca Albertini Syz, prima orientati al ribasso e ora timorosi che l’inflazione riprenda ad aumentare, verso fine anno, ha fatto scendere il prezzo di mercato del BTp 2019 a poco meno di 91,8, rilevato il 25 febbraio 2009.
A oggi il coefficiente d’indicizzazione, che esprime la variazione del costo della vita in area euro, con l’esclusione della componente tabacco, è pari a 1,01736. Il valore è certamente superiore a quello indicato all’atto del collocamento del titolo, ma è inferiore allo stesso coefficiente rilevato a inizio dicembre 2008, quando risultò essere, per valuta 5 dicembre, 1,02367 (quindi circa il 2,4% al quale lei fa riferimento). Il coefficiente d’indicizzazione segue le variazioni che fanno riferimento alla dinamica inflazionistica. In area euro, essa ha subìto una forte flessione, a partire da luglio scorso, quando fu indicata al 4 per cento. A dicembre scorso il valore è stato fissato all’1,6 per cento. Alla luce del valore del coefficiente, il prezzo di mercato indicato dal lettore a 93 diverrebbe un prezzo di acquisto di 94,61. Ma in caso di ritorno dell’index ratio al di sotto di 1 per una prolugata (e molto improbabile) deflazione, il rimborso avverrebbe comunque a 100. Il titolare pagherebbe un’imposta del 12,5% sul reddito di capitale pari alla quota del disaggio di emissione maturato dalla data di acquisto fino alla scadenza (=0,214-0,018). E poi percepirebbe un reddito diverso (anche questo sottoposto all’aliquota del 12,5%, al netto di eventuali minusvalenze pregresse) pari a 100-93-0,196=6,804.
Se a scadenza, come ipotizza la domanda del lettore, il coefficiente d’indicizzazione totale fosse di 1,10, il rimborso lordo avverrebbe a 110. Il valore di rimborso a scadenza come detto non potrà essere inferiore a 100, a prescindere dall’andamento del tasso d’inflazione. Molto più complessa l’ipotesi del prezzo, in caso di deflazione. Se la sua durata fosse di dieci anni, come indicato nella domanda, non è automatico ritenere che il prezzo d’acquisto di 93 non subisca variazioni. Basterebbe osservare i movimenti del prezzo che il titolo ha evidenziato nelle ultime settimane per rendersi conto che le oscillazioni di un’emissione con scadenza decennale, per quanto indicizzata all’inflazione d’area euro, si muovono di pari passo con le attese sul futuro dei rendimenti, oltre che in funzione del passaggio di liquidità tra i mercati obbligazionari e quelli azionari nelle sedute in cui le Borse tendono a salire.
In caso di deflazione, sarebbe il coefficiente d’indicizzazione a diminuire con conseguente possibile calo del controvalore che si otterrebbe moltiplicando il prezzo per il coefficiente stesso. Per altro, sempre in caso di deflazione, all’avvicinarsi della scadenza il prezzo di mercato del titolo andrebbe ad avvicinarsi al valore di rimborso di 100. Le emissioni pubbliche indicizzate all’inflazione come i BTpi sono strumenti finanziari parzialmente complessi in virtù della presenza del coefficiente d’indicizzazione che interviene sempre nel calcolo del controvalore complessivo dell’operazione, in quanto sia il prezzo di mercato, sia il rateo d’interessi maturato andranno moltiplicati per questo.



Brasile, così la tassazione sul bond 4 febbraio 2010
Ho acquistato un titolo di Stato brasiliano (Isin XS0106768608) con scadenza il 4 febbraio 2010 per un valore nominale di 15mila euro, cedola dell’11%, al prezzo di 102,25. Premesso che intendo portarlo a scadenza, vorrei sapere la corretta tassazione degli interessi erogati e del capitale rimborsato alla scadenza; in particolare se questi proventi verranno tassati sia con eventuale aliquota brasiliana e successivamente con quella italiana oppure ci sono altre possibilità, tenuto conto che le eventuali imposte adranno a incedere anche sul rendimento netto offerto dal titolo.
C.L - (via e-mail)
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- Il titolo «Brasile 11% - 4 febbraio 2010» (Isin XS0106768608), è un’obbligazione dei Mercati emergenti emessa dal Brasile, con cedola annua lorda fissa pari all’11%, e rimborso del valore nominale il 4 febbraio 2010, trattata sul sistema multilaterale di negoziazione (Multilateral trading facility - Mtf) denominato EuroTlx. Questo mercato telematico è gestito da Tlx Spa, società il cui capitale sociale è detenuto al 50% da UniCredit Spa e Banca Imi Spa, su cui vengono negoziati strumenti finanziari di investimento rivolti agli investitori non istituzionali.
L’obbligazione in esame ha presentato un prezzo di emissione pari a 98,54 euro e a scadenza sarà rimborsata a 100. Il lettore, quindi, dichiara di averla acquistata sul mercato al prezzo di 102,25 euro, ciò comporterà a scadenza la registrazione di una minusvalenza, data dalla differenza tra il prezzo di acquisto e quello di rimborso. Tale minusvalenza potrà essere, eventualmente, portata a compensazione di successive plusvalenze. Si ricorda infatti, spiega la società di consulenza indipendente Consultique, che le minusvalenze rientrando nella categoria dei redditi diversi possono essere utilizzate in compensazione di altri redditi diversi creati, se in regime di risparmio amministrato, in data posteriore alla registrazione della stessa minus, così come prescritto al punto 5 dell’articolo 6 del decreto legislativo n. 461/1997.
Il lettore espone altresì il dubbio sull’eventuale problematica riguardante la possibile doppia tassazione sulle cedole di interessi staccate annualmente dal titolo obbligazionario, essendo esso emesso da uno Stato estero. Per rispondere a questa domanda bisogna far ricorso ai Trattati tra Italia e Paesi esteri contro le doppie imposizioni dei redditi finanziari e, in questo particolare caso, alla «Convenzione tra Italia e Brasile per evitare le doppie imposizioni fiscali sul reddito» firmata a Roma il 3 ottobre 1978, ratificata nella legge n. 844/1980. In questa legge, all’articolo 11, viene disposto che gli interessi provenienti da uno Stato contraente e pagati a un residente dell’altro Stato contraente sono imponibili soltanto nel Paese di residenza dell’investitore.
Alla domanda del lettore si deve quindi dare risposta affermativa sulla sola imposizione fiscale, per mezzo di ritenuta d’imposta sostitutiva del 12,50%, in Italia. Tuttavia questa agevolazione tributaria trova applicazione nel solo caso in cui l’intermediario italiano abbia comunicato al Paese estero lo stato di residente in Italia dell’investitore; si invita quindi il lettore ad accertarsi presso gli uffici preposti della banca utilizzata per l’acquisto dello strumento dell’effettiva avvenuta comunicazione, ricadendo in ogni caso la responsabilità, in mancanza di questo adempimento, sull’intermediario stesso, che sarà eventualmente tenuto a rimborsare l’investitore per l’importo pari alla maggiore imposta versata all’Erario.