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 2009  marzo 02 Lunedì calendario

«Non ho chiuso con la tivù, è la tivù che non vuole più frequentarmi». C’è stato un tempo in cui Alberto Patrucco era uno dei punti di forza di Zelig, invitato perfino a Ballarò

«Non ho chiuso con la tivù, è la tivù che non vuole più frequentarmi». C’è stato un tempo in cui Alberto Patrucco era uno dei punti di forza di Zelig, invitato perfino a Ballarò. Scriveva libri per Mondadori, vendeva. Poi è successo qualcosa, ad esempio l’incisione di un (bel) disco di traduzioni di George Brassens. «E’ piaciuto a critica e pubblico, ma in tivù non mi ha chiamato nessuno». Toccare Brassens significa confrontarsi con De André. «E puoi solo perderci. Ma Brassens ha lasciato un repertorio sconfinato. In Francia ha venduto più dei Beatles, da noi è solo "quello di De André". Purtroppo non c’è più curiosità intellettuale, Brassens rappresenta un altro punto di vista e quindi fa paura. Il vero luogo artistico era e resta il teatro (il 3 febbraio a Roma, ndr), dove alterno canzoni e miei monologhi. Il teatro è calcio, la tv è calcetto». E allora perché vorrebbe tornarci? «Per parlare a più persone e perché in tivù ormai ci sono solo due filoni: l’inutile e il gurismo. L’inutile è il comico che non fa male a nessuno. Il gurista è quello che non si limita a distruggere, ma dà anche consigli su come ricostruire. Ruolo, quest’ultimo, che non compete alla satira. Penso a Grillo, a Luttazzi, a Crozza. Che poi la satira, di fatto, non cambia assolutamente nulla». Quindi se ne può fare a meno. «Al contrario, è fondamentale. Cosa c’è di più bello che individuare una strada personale che induca al riso? La satira è straordinaria, però concretamente non serve a niente. David Letterman, in campagna elettorale, dava dell’imbecille a Bush. Lo attaccavano tutti. Poi però lui ha vinto lo stesso. I censori sono stupidi, se il potere fosse intelligente saprebbe di non avere nulla da temere». Scusi, ma lei non era quello del pessimismo cosmico? «Mica rinnego nulla. Ho sempre cercato di evitare il buffo da una parte e il comizietto dall’altro. Vengo dalla vecchia scuola milanese, quella che ti insegnava a diffidare dei comici, a frequentare altri mondi per non inaridirsi: musicisti, scrittori, filosofi. Oggi nessuno frequenta più nessuno. Ed io riprendo la chitarra, per raccontare il presente». Potrebbe rifarlo a Zelig. «Sono ancora potentissimi, ma non rientro più nelle loro grazie. A Zelig era bello ma frustrante. Ogni volta preparavi un pezzo e ti tagliavano, controllavano, vivisezionavano. Mi sarebbe piaciuto sul palco, dire "Andate tutti affan….", scendere giù e poi chiedere a Bisio e agli autori: sono stato abbastanza conciso e generico?». Ma in tivù la tagliavano sempre? «Da Costanzo avevo libertà totale. Anche con Funari. Rarità». Sta dicendo che le caste sono anche a sinistra? «Sai che scoperta. Tutta gente che vuole portarti a pensarla come loro. A me non interessa far cambiare idea alla gente: mi interessa farlo ridere con intelligenza». Come crede di riuscirci? «Affrontando la realtà, senza paura di scomuniche. Siamo tutti precari con sogni low cost. La risata disimpegnata è rassicurante ma troppo facile. Un comico deve toccare anche gli argomenti tabù, come la morte. A teatro immagino gli epitaffi dei personaggi famosi». Come Gaber ne Il suicidio. «Già. Romano Prodi: "Finalmente faccio parte di una maggioranza stabile". E poi Berlusconi, di cui parlo il meno possibile perché è tempo di igiene orale e mi sono già sporcato abbastanza la bocca. Oltretutto, quando è il Premier a fare il capocomico, per il satirico diventa tutto più complicato. Il suo epitaffio? "Quando dicevo che dovevate passare sul mio cadavere, scherzavo"». E quello di Patrucco? «Non voglio epitaffi, non mi esalta competere in freddezza con il marmo e non sopporto l’idea di rimanere fermo sulle mie convinzioni».