Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  febbraio 28 Sabato calendario

(Due articoli) POPOLI INDIGENI, RISCHIO ESTINZIONE- Genocidio. Un titolo di una sola parola a caratteri cubitali tra le pagine del Sunday Times Magazine svela ai lettori britannici una realtà a lungo nascosta: lo sterminio dei popoli indigeni, avviato nei secoli delle conquiste, non si è mai arrestato

(Due articoli) POPOLI INDIGENI, RISCHIO ESTINZIONE- Genocidio. Un titolo di una sola parola a caratteri cubitali tra le pagine del Sunday Times Magazine svela ai lettori britannici una realtà a lungo nascosta: lo sterminio dei popoli indigeni, avviato nei secoli delle conquiste, non si è mai arrestato. Il reporter Norman Lewis si immerge nelle carte di un’inchiesta della procura generale brasiliana e porta a galla uno scenario da incubo: assassinii di massa, torture, morbi atroci come il vaiolo deliberatamente inoculati, veleni, riduzione in schiavitù, abusi sessuali, furti e soprusi di ogni sorta. Una «tropical Gomorrah», scrive in un passaggio Lewis: «La tragedia degli indiani di America si sta ripetendo, ma compressa in un tempo più breve. Dove dieci anni fa c’erano centinaia di indios, ora ce ne sono poche decine». Era domenica 23 febbraio 1969, avrebbe potuto essere ieri. A quarant’anni esatti da quell’articolo choc che provocò grande reazione e la nascita di una delle maggiori organizzazioni per la difesa dei diritti dei popoli indigeni, «Survival», lo scenario non è cambiato di molto. Francesca Casella, direttrice di «Survival International Italia», fa il punto: «Un progresso importante c’è stato: è cambiato l’atteggiamento dell’opinione pubblica. L’estinzione dei popoli indigeni non è più data per scontata ma gli ostacoli restano tantissimi: violenze, usurpazione delle terre, presunzione che si tratti di popoli rimasti primitivi, che hanno bisogno del nostro aiuto per svilupparsi e cambiare stile di vita. Senza essere consultati». Le cifre non sfigurerebbero sotto il titolo «Genocidio»: nel secolo scorso in Brasile è scomparsa una tribù ogni due anni, 87 solo tra il 1900 e il 1957. I casi raccontano ancora di una Gomorra nascosta nel fitto della vegetazione. Gli Enawene Nawe, del Mato Grosso, in Brasile. Al principio una storia di speranza: contattati nel 1974 dai missionari gesuiti, erano 97; protetti e lasciati in condizione di prosperare, oggi sono quasi cinquecento. Ma rischiano l’estinzione. La vita della tribù, che ruota intorno al fiume Yuruena, rischia di essere soffocata da un progetto di 77 dighe destinate alla produzione di energia elettrica per i grandi coltivatori della zona, primo tra tutti il magnate della soia Blairo Maggi. Che è anche il governatore dello Stato, cioè colui che firma il via libera al progetto. La terra usurpata resta il primo problema. Così a Nord del Brasile, nel Marañhao, gli Awà non possono che arretrare davanti alle ruspe e alle motoseghe. In fuga da decenni sono ormai ridotti a trecento, rifugiati ai margini di quella che un tempo era la loro foresta, minacciati dal mondo «civilizzato» che avanza portando malattie, depressione, alcol. Una campagna internazionale era riuscita a vincolare finanziamenti della Banca mondiale destinati allo sviluppo alla demarcazione della loro terra: il Brasile ha eseguito, ma poi non impedisce che la riserva sia costantemente invasa. Amministrazioni conservatrici o, come nel caso di Lula a Brasilia, progressiste, poco cambia. L’unica differenza la fa la volontà politica. A volte c’è, più spesso manca. Le regole in questi anni sono state fissate; anche l’Onu, il 13 settembre 2007, ha approvato la Dichiarazione sui Diritti dei popoli indigeni. Quanto ai Dongria Kondh, ottomila superstiti asserragliati sulle colline di Niyamgiri, Stato indiano dell’Orissa, più che nel governo puntano sul sostegno della popolazione locale, e sulle campagne internazionali. Da mesi sulle loro terre sono al lavoro gli operai di una delle più grandi compagnie minerarie britanniche, la «Vedanta», che progetta un’immensa miniera di bauxite. Per fermarli «Survival» sta cercando di fare pressione sugli azionisti di «Vedanta». Sembrano vicende lontane, si scopre che sono anche italiane. Roma, come membro Ue, contribuisce agli aiuti destinati al Botswana (nel 2001 un accordo da 10 milioni di euro) per «salvaguardare le riserve protette». Il governo dello Stato africano però ha un’idea originale della salvaguardia, in particolare del deserto del Kalahari, terra ancestrale dei Boscimani. Una sentenza dell’Alta corte del Botswana riconosce il diritto degli indigeni di vivere in quell’area, ma l’amministrazione li ha ormai sfrattati – con il pretesto di inserirli nella società – e rende impossibile il rientro: cementato l’unico pozzo d’acqua che dava sostentamento all’intera tribù, vietato riaprirlo. Al tempo stesso però è stata autorizzata la perforazione di altri tre pozzi destinati alle attività minerarie, alle strutture turistiche e ad abbeverare gli animali. Una ragione c’è: diamanti. All’inizio offerti (al 50%) alla De Beers, che però dopo la campagna internazionale ha venduto a Gem Diamonds. A volte è il bisogno di affermare la sovranità, come nel caso dell’Indonesia nella Papua Occidentale, dove gli indigeni sono vittime di una violenta repressione, induritasi nelle ultime settimane. Altre volte ancora è la guerra. In Colombia, per esempio, dove gli indios sono schiacciati negli scontri tra guerriglia, paramilitari ed esercito. di questi giorni l’allarme per l’uccisione ancora da chiarire di 27 indigeni Awa (nessuna parentela con i brasiliani), secondo una delle ricostruzioni ammazzati dalle Farc perché sospettati di essere collaborazionisti delle forze armate. Il caso colombiano di recente è diventato una lettera preoccupata di 22 europarlamentari al presidente di Bogotá, Álvaro Uribe. Le denunce di violenze e minacce non si contano. Terribile la storia di Aida Quilcue, uccisa il 16 dicembre scorso a un posto di blocco dell’esercito. Laura Greco, una dei fondatori dell’organizzazione italiana «A Sud», lavora anche in Colombia. In particolare è responsabile di un progetto nel Guaviare con il popolo dei Nukak, spinti dal conflitto oltre le proprie terre fino alla periferia della capitale dello Stato, San José. «A Sud» cerca di provvedere a un minima assistenza sanitaria: «Era una popolazione nomade di cacciatori – spiega Laura ”. Sedentarizzati in maniera forzata, hanno dovuto radicalmente cambiare abitudini e prima tra tutte l’alimentazione. Il che ha provocato nuove malattie: muoiono anche semplicemente di dissenteria. Di loro non si occupa il governo, né l’amministrazione locale che dice di aver bisogno del via libera da Bogotá. Hanno problemi di integrazione, in pochi sanno lo spagnolo, i bambini non vanno a scuola». Ai margini di tutto, in attesa di estinguersi. Non è molto diverso da quello che Lewis chiamava «genocidio». GLI «INVISIBILI»: UNA VITA SEMPRE IN FUGA- Tre anni fa in Rondônia, regione dell’Amazzonia brasiliana al confine con Perù e Bolivia, furono due funzionari governativi a vedere l’ultimo appartenente alla tribù dei Tumaru. Se lo ricordano bene, visto che puntò contro di loro il suo arco, da non più di dieci metri, prima di fuggire. Di lui non si è più saputo nulla. I due uomini del Funai, l’ente governativo per i diritti degli Indios, erano sulle sue tracce da molti giorni all’interno della foresta, da quando una tribù vicina li aveva avvisati che dei Tumaru era rimasto un solo individuo. Lo volevano trovare, per suggerirgli di unirsi a qualche altra tribù della zona. Ma quell’indio non ne ha voluto sapere. La sua scelta è stata quella di puntare l’arco e correre. La sua è, o era, una delle circa 230 tribù conosciute che abitano nell’Amazzonia brasiliana, per un totale di 460 mila persone. Prima che arrivassero gli occidentali erano circa sette milioni gli Indios che popolavano la foresta brasiliana. Ma dopo secoli di stragi e devastazioni nel loro territorio, operate prima dai coloni, poi dai grandi allevatori e dalle multinazionali che hanno disboscato, costruito strade e dighe, c’è ancora qualcuno che manca all’appello: sono una quarantina di tribù. Sono quelle definite «no contact»: isolati, mai nessun incontro con altri uomini diversi da loro. Un mondo sconosciuto che vuole rimanere tale. Una vita in fuga, in luoghi sempre più remoti. Di loro non si sa nulla, se non il fatto che esistono. E già questa è un’impresa che riesce solo agli altri indios che vivono nel fitto della foresta e che, volenti o nolenti, hanno invece contatti con il resto del Paese. Sono loro a riferire ritrovamenti di strumenti da caccia sconosciuti, o di aver visto nativi che non parlano la loro lingua darsi alla fuga nella boscaglia. Si sa in che zona vivono, ma non quanti sono o come sono organizzate le loro comunità. La tribù dell’Amazzonia brasiliana degli Orowari, che nella loro lingua significa «il gruppo », vive nella riserva di Igarapé Laje, in una zona dello stato di Rondônia al confine con quella chiamata Musacanava, dove si sa che vivono tre diverse comunità di indios isolati. Gli Orowari hanno grande venerazione per questi loro vicini misteriosi: li chiamano «Ko Om Tan Krik Nana», «quelli che si nascondono», e che quindi non sono a conoscenza di un progetto ormai in fase di realizzazione che prevede la costruzione di un sistema combinato di dighe sul fiume Rio Madeira, per realizzare centrali elettriche. Il piano prevede che parte dell’area Musacanava diventi un lago artificiale. «Noi possiamo almeno provare a difendere i nostri diritti, farci sentire. Loro no’ spiega Jesse Waram Xijeijn, 32 anni, capo di uno dei quattro villaggi Orowari che si trovano nella riserva di Igarapé Laje ”. Li ammiriamo, perché continuano a vivere secondo tradizioni che erano anche nostre. Se saranno costretti a uscire da Musacanava, ammesso che sopravvivano alle ma-lattie e all’alcol, saranno uccisi dai grandi proprietari terrieri che sono ai confini della loro zona. E chi anche riuscirà a sopravvivere avrà perso per sempre il suo modo di vivere». Su come difendere quel mondo anche gli stessi Orowari si dividono. C’è chi ritiene giusto avvicinare «quelli che si nascondono», conoscere le loro tribù, il loro numero, le loro abitudini, perché così si può provare a tutelare meglio la loro area, e chi invece, come Waroi Jexian, uno degli insegnanti della scuola del villaggio, la pensa in modo opposto: «Nel momento stesso in cui avviene la conoscenza, anche da parte di altri indios, è l’inizio della fine delle tribù isolate. accaduto un’infinità di volte e non basta dire che adesso si fanno subito le vaccinazioni e non muoiono più come un tempo per un semplice raffreddore. Molti muoiono lo stesso e poi il problema non si può ridurre semplicemente a quello della sopravvivenza. Loro vogliono continuare a vivere nella foresta come hanno sempre fatto». A metà degli anni ’80 un gruppo di aderenti alla «Missione delle Nuove tribù», un’organizzazione missionaria fondamentalista con sede negli Usa, organizzarono una spedizione non autorizzata dal governo brasiliano, per entrare in contatto con un gruppo allora sconosciuto, gli Zo’è, nello stato del Pará. Una volta individuati dall’aereo i villaggi, distribuirono regali e costruirono una base a pochi giorni di cammino. Poco dopo il primo contatto, avvenuto nel 1987: decine di Zo’è morirono di influenza, malaria e malattie respiratorie. Di casi come questo ce ne sono stati a decine. A essere convinto che non esista un modo corretto per entrare in contatto con gli indigeni che scelgono di vivere isolati c’è anche Sydney Possuelo, esploratore, antropologo e primo direttore del Funai, responsabilità che lo ha portato per anni nella foresta a seguire tracce di popoli sconosciuti. Ne ha contattati diversi, e si è pentito di averlo fatto: «Anche se si arriva da loro con le migliori intenzioni, li si introduce in una vita che non è loro. Regaliamo coltelli, pentole, forbici, e in questo modo creiamo bisogni che non avevamo mai avuto prima, rompendo un’armonia che è molto delicata. Gli attrezzi che noi abbiamo lasciato nelle loro mani prima o poi si rompono e a quel punto lo sarà anche il loro equilibrio». Del resto questi popoli incontattati, proprio perché privi di tecnologia moderna, sono in grado di vivere in equilibrio in mezzo a una natura dove tutti gli altri non sarebbero in grado di sopravvivere una settimana. La loro storia, ma in generale quella di tutti gli indios, non sta scritta nei libri. Uno di loro, ormai integrato nella società, Daniel Munduruku, che coordina la collezione «memorie ancestrali» per un’importante casa editrice brasiliana, ha spiegato che «per noi scrivere un libro è una novità: le storie vivono dentro di noi. più facile che avere a che fare con un libro, il libro pesa».