Luigi Offreddu, Corriere della Sera 02/03/2009, 2 marzo 2009
Aveva detto ai suoi fidi, un paio d’anni fa: «La divina provvidenza, l’abbondanza di denaro contante nell’economia mondiale, e centinaia di trucchetti, dei quali non è necessario che vi mostriate pubblicamente al corrente, ci hanno aiutato a superare questo momento
Aveva detto ai suoi fidi, un paio d’anni fa: «La divina provvidenza, l’abbondanza di denaro contante nell’economia mondiale, e centinaia di trucchetti, dei quali non è necessario che vi mostriate pubblicamente al corrente, ci hanno aiutato a superare questo momento. Abbiamo raccontato un sacco di balle ma non può andare avanti così…». C’era un registratore acceso, lì accanto. Ferenc Gyurcsany aveva appena vinto le elezioni in Ungheria, con il suo Partito socialista. Qualche mese più tardi, quelle parole trapelarono, e vi furono cortei furibondi per le strade. Alla fine, la bufera passò. Ma due anni e mezzo dopo, la calma piatta e cupa di stasera è forse ancora peggio: l’economista Gyurcsany, 47 anni, dal 2004 primo ministro ungherese, ha giocato la sua carta sul tavolo d’Europa, l’ha giocata con grinta e convinzione, e ha perso. Il «falchetto», come qualcuno lo chiama per il piglio di certe sue uscite, si è trovato a volare da solo, mentre forse pensava di guidare uno stormo. E alla fine, ha dovuto planare. «C’è il pericolo che sul nostro continente cali una nuova cortina di ferro», aveva ammonito Gyurcsany di prima mattina, aprendo il pre-vertice dei paesi dell’Est. Portava al bavero della giacca un’enorme spilla bianca e rossa. E in una cartella, la richiesta presentata pochi giorni fa da Budapest per un ingresso accelerato nella zona dell’euro, un altro segnale d’allarme. Voleva dire, il primo ministro: oggi il pericolo non è più una cortina geopolitica come ai tempi dell’Urss, ma un sipario economico non meno rigido. Da una parte i ricchi, e dall’altra i poveri, cioè «noi», gli ultimi arrivati nell’Unione europea, gli ungheresi, i polacchi, e tutti gli altri dell’Est, i più bastonati dalla recessione, i più curvi sotto il peso dei debiti in valuta pregiata. Da qui, la proposta del «falchetto »: un fondo speciale da 160-190 miliardi di euro, che la Ue avrebbe dovuto stanziare per sostenere appunto l’Est, tutto l’Est (per l’Ungheria si sarebbe aggiunto al prestito internazionale da 6,5 miliardi che ha appena salvato il paese dalla bancarotta). La speranza era che quella fosse una proposta trainante. Che anche i più timidi si sarebbero accodati. Invece «noi», tutti gli altri, proprio coloro che avrebbero dovuto beneficiare della mano tesa, uno dopo l’altro hanno risposto di no, alcuni perfino stizziti: forse hanno giocato ragioni d’orgoglio, oppure -caso assai più probabile- la speranza di contrattare ognuno il proprio salvataggio con uno Stato «sponsor», per esempio con la Germania o con l’Austria (potenzialmente interessata a operazioni del genere poiché sovraesposta con le sue banche nell’Est). Il ministro polacco agli affari europei, Mikolaj Dowgielewicz, ha commentato asciutto: «Siamo contrari, questo piano è un’eccessiva drammatizzazione, e mette erroneamente tutti gli stati dell’Est in un solo mucchio». Il suo primo ministro, Donald Tusk, ha ricamato qualche vago auspicio di «solidarietà europea » e si è fermato lì. Il premier slovacco Robert Fico ha rincarato la dose: «Sbagliato: si dà l’immagine di un Ovest buono e di un Est cattivo. Ma all’Ovest c’è per esempio l’Irlanda, che sta peggio di noi». E mentre la tedesca Angela Merkel confermava che ogni caso andrà valutato a parte, ha chiuso il cerchio José Manuel Barroso, presidente della Commissione europea: «A parte l’Ungheria, gli stessi stati dell’Est non hanno chiesto un piano così…». A fine giornata, è giunta una bordata da Oriente anche alla prima richiesta dell’Ungheria, quella di un ingresso accelerato nell’Eurozona: «Sarebbe uno sbaglio – ha detto serafico il ceco Mirek Topolanek, presidente di turno della Ue – cambiare adesso le regole del gioco». E a quel punto, il «falchetto» deve aver capito che c’erano troppe doppiette in giro. Luigi Offeddu