Note: [1] Andrea Tarquini, la Repubblica 20/2; [2] Federico Fubini, Corriere della Sera 19/2; [3] Guido Tabellini, Il Sole-24 Ore 24/2; [4] Marco Liera, Il Sole-24 Ore/Plus 28/2; [5] Franca Roiatti, Panorama 5/3; [6] Maximilian Cellino, Il Sole-24 Ore/Plu, 28 febbraio 2009
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 2 MARZO 2009
Crollo degli ordinativi dell’industria, svalutazione delle valute nazionali, forti timori per il sistema bancario: l’est europeo è il nuovo fronte della crisi economica mondiale. [1] Federico Fubini: «In pochi mesi lo zloty polacco ha perso un terzo del suo valore sull’euro, il forint ungherese il 23%, la corona ceca il 17%. Di altrettanto è aumentato l’onere dei debiti che ora famiglie e imprese dovranno rimborsare in euro. L’Europa centrorientale è entrata nella spirale di squilibri con l’estero, svalutazioni e ritirata dei capitali che già da tempo era visibile all’orizzonte: la stessa sequenza svolta dall’Asia dodici anni fa». [2]
La situazione dell’Europa orientale è molto simile a quella dell’est asiatico alla vigilia della crisi del 1997: forte indebitamento in valuta estera e forte dipendenza dai capitali stranieri in una situazione di blocco dei flussi commerciali e rimpatrio dei capitali. Risultato: la svalutazione del cambio rende insostenibile per molte famiglie e imprese il rimborso del debito. Guido Tabellini: «La differenza principale rispetto all’Asia è che gran parte dei debiti esteri accumulati dai Paesi dell’Est Europa è interna ai grandi gruppi bancari: il settore privato ha preso a prestito da banche locali che, a loro volta, sono possedute e finanziate da banche dell’Europa occidentale». [3]
Nell’ultimo decennio gli istituti di credito impegnati in acquisizioni nell’Europa orientale sono stati di gran moda. Marco Liera: «Le banche che non facevano queste cose venivano trattate con sufficienza da diversi analisti e investitori. ”Boring banks”, banche noiose le ha definite il ”Wall Street Journal”. In pochi mesi è cambiato il mondo. Anche le banche noiose sono state colpite dalla crisi, ma mai come certe loro ”vivaci” concorrenti». [4] A fine 2007 i debiti nei confronti di banche occidentali superavano o raggiungevano l’80% del reddito nazionale per i Paesi baltici, Croazia, Bosnia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Bulgaria, Romania e Montenegro. [3]
Per oltre un decennio, la nuova Europa ha approfittato dei tassi bassi: quest’anno famiglie e imprese ad Est dell’ex cortina di ferro dovrebbero rimborsare alle banche una somma pari a più di metà del prodotto interno lordo dell’area emersa dal Patto di Varsavia (Balcani esclusi): 400 miliardi di dollari, quasi tutti da versare non in monete nazionali ma in euro, franchi svizzeri o corone svedesi. [2] Tra quelli che devono avere i soldi, il Paese più esposto è l’Austria, i cui crediti nei confronti dell’Europa dell’est superano il 70% del reddito nazionale e il 25% dell’attivo bancario. [3] Josef Pröll, ministro delle Finanze di Vienna: «Se sull’Ucraina si abbatte una catastrofe economica o politica, non potremo evitare l’effetto domino sull’Europa». [5]
Stretta fra l’aumento del prezzo del gas russo (triplicato) e il crollo dell’export di acciaio (la voce più pesante nelle esportazioni), l’Ucraina rischia il crac. [2] Maximilian Cellino: «A giudicare da cosa ne pensa il mercato, l’Ucraina sembra essere ormai quasi spacciata: i rendimenti dei credit default swap (Cds) – che rappresentano idealmente il premio da pagare per assicurarsi contro il fallimento di un emittente – implicano per lo Stato della ”Rivoluzione arancione” una probabilità di insolvenza pari al 94% nei prossimi 5 anni». [6] Il debito verso l’estero è salito in cinque anni da 29 a 105 miliardi di dollari. Stefano Feltri: «Ha 46 miliardi di dollari di obbligazioni in scadenza». [7] Franca Roiatti: «Il sindaco della capitale ucraina non è più in grado di pagare medici, conducenti di autobus, riscaldamento nelle scuole». [5]
Secondo i calcoli di Business Week, tra i primi paesi a pagare il crac di quella che l’Economist chiama l’Argentina d’Europa (facendo riferimento al default di Buenos Aires che nel 2001 trascinò in recessione l’intero Sudamerica) ci sarebbe l’Italia, in particolare UniCredit e Banca Intesa. Gianluca Paolucci: «Al gruppo guidato da Alessandro Profumo fa capo la Ukrsotsbank, uno dei principali gruppi bancari del Paese. Piazza Cordusio l’aveva strappata nel 2007, a colpi di dollari, alla concorrente Intesa. Che si è rifatta un anno fa comprando per 504 milioni di dollari la Pravex Bank». [8]
Secondo un recente studio del Fondo monetario internazionale, UniCredit è il gruppo bancario europeo che vanta maggiori crediti con l’Europa dell’est. Tabellini: «Ma con un’esposizione comunque limitata: circa il 13% del suo attivo a fine 2007. Nel caso di Intesa Sanpaolo l’esposizione scende al 6% dell’attivo. troppo poco per mettere a repentaglio i bilanci delle grandi banche italiane, anche nelle ipotesi più catastrofiche, sebbene sia abbastanza per incidere sulla redditività». [3]
Oggi la grande paura si chiama Ucraina, domani potrebbe toccare a un Paese dell’Ue. Standard & Poor’s ha suddiviso le economie dell’Europa orientale in due gruppi distinti: Repubblica Ceca, Polonia e Slovacchia sono valutate in condizioni migliori, gli Stati baltici (Estonia, Lettonia e Lituania), Bulgaria, Ungheria e Romania avrebbero un più elevato livello di vulnerabilità economica. [9] Dopo anni di crescita incontrollata del credito e con in seno la più grande bolla immobiliare dell’est Europa, la Lettonia affronta una crisi senza precedenti: nell’ultimo trimestre l’economia si è contratta del 4,2%, le previsioni per il 2009 indicano un’ulteriore contrazione tra il 5 e l’8 %, il 2010 si preannuncia nerissimo. [10]
«Ci sono giorni in cui si contano perfino 1.000 licenziamenti», ha spiegato Iveta Kazoka, ricercatrice al centro studi Providus di Riga. [5] Le cose non vanno bene neanche in Estonia: a Tallinn, le liste dei disoccupati registrano 157 iscrizioni al giorno. [11] In Lituania il 16 gennaio i dimostranti hanno attaccato il parlamento con fumogeni, uova e palle di neve. Roiatti: «Erano 7 mila, mobilitati dai sindacati contro i tagli ai salari nel pubblico impiego e l’aumento delle tasse. Ottantasei persone sono state arrestate». John Levy, della società di consulenza Eurasia group: «Non credo che assisteremo a episodi di guerriglia. Piuttosto il rischio è che molti di questi paesi colpiti dalla crisi non siano capaci di prendere le necessarie misure». [5]
In Ungheria oltre l’80 per cento del Pil dipende dall’export. [7] Tarquini: « il grande malato tra i membri orientali della Ue. Lo Stato era sull’orlo della bancarotta per l’iperindebitamento. stato salvato in extremis con un pacchetto di aiuti di 20 miliardi concesso in corsa da Banca Mondiale, Banca centrale europea e Fmi. Il pil è già calato del 2,1 per cento a fine 2008». [1] La Romania è un caso da manuale. Roiatti: «Quasi il 60 per cento dei prestiti erogati è in euro, in 3 mesi gli stipendi sono calati del 20 per cento». [5] Andrea Tarquini: «Dopo anni di sviluppo impetuoso grazie a forti delocalizzazioni industriali della Vecchia Europa, anche Bucarest trema, teme il disinvestimento e affronta la massiccia svalutazione del lei, la valuta nazionale, caduta del 20 per cento, la Borsa è stata vittima di speculazioni. La banca nazionale prevede un forte calo della crescita del Pil». [1] Non va meglio in Bulgaria, dove il disavanzo con l’estero arriva quasi al 25% del reddito nazionale. [3]
Ancora a gennaio la Banca centrale della Polonia scriveva in un report che la svalutazione dello zloty era un fattore positivo. Feltri: «Una moneta più debole avrebbe contribuito a rendere più competitive le merci polacche nei Paesi dell’Eurozona, dove consumatori in preda alla recessione sono affamati di beni a basso costo. Poi le cose sono degenerate». [7] La Repubblica Ceca è tornata negli ultimi anni il bastione industriale e tecnologico di prima del comunismo. Tarquini: «Il sistema bancario è ancora solido ma si temono disinvestimenti occidentali, e soprattutto i pessimisti parlano di pericolo di recessione con un calo del pil del 5 per cento». In Slovacchia, felice eccezione che vanta un altissimo peso della produzione industriale ad alto contenuto tecnologico e fa già parte dell’area euro (dal primo gennaio), il Pil dovrebbe crescere nel 2009 del 2,4% contro il 7,4 del 2008. [1]
Sebbene la situazione sia difficile, non bisogna farsi prendere dal catastrofismo. Tabellini: «Anche tenendo conto del rischio di cambio, molti dei crediti in Europa dell’Est sono incomparabilmente migliori del ”subprime” americano. Ma, soprattutto, i Paesi dell’Est Europa sono piccoli dal punto di vista economico. Anche se i loro debiti sono concentrati in poche banche occidentali, si tratta comunque di valori contenuti in proporzione sia al reddito nazionale del Paese creditore sia all’attivo delle banche». [3] Purtroppo, la debolezza dei Paesi dell’Est non è l’unica preoccupazione dell’Ue, né la più importante. Carlo Bastasin: «Un clima di sfiducia persistente rende fragile la posizione di Grecia e Irlanda». [12]
La paura è che un Paese euro si trovi nell’incapacità di pagare le cedole del debito pubblico o di finanziarsi senza ristrutturare il debito: dovesse cedere uno solo degli anelli della catena della moneta unica, per quanto periferico, il contagio sarebbe difficile da arrestare. Paradossalmente, l’assistenza che è possibile fornire all’est non può essere offerta ai Paesi dell’euro. Bastasin: «Il Trattato stabilisce che nessun Paese della zona euro può essere salvato dagli altri membri. Si tratta della clausola di no-bailout (art. 103), una colonna dell’architettura istituzionale dell’euro, perché rende stringente l’impegno al rigore fissato dal Patto di stabilità». [12]
In caso di rischio di crac per un Paese dell’area euro si potrebbe ricorrere solo all’articolo 100 del Trattato che prevede assistenza finanziaria a uno Stato membro colpito da severe difficoltà per «condizioni eccezionali estranee al suo controllo». Bastasin: «L’impasse di fronte al quale tutte le proposte di bailout si fermano è il rischio di salvare Paesi che non mettono in atto politiche economiche coerenti. Non si tratta tanto di un problema di moral hazard, cioè di togliere ai Paesi a rischio l’incentivo a curare se stessi ben sapendo che poi saranno salvati dai partner, ma di preservare la credibilità del salvataggio: se il Paese aiutato continua a sbagliare politiche, finisce per rendere vano e non più credibile ogni altro salvataggio». [12]