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 2009  febbraio 28 Sabato calendario

ORA LA RIVOLUZIONE IL DOLCE STIL NOVO"


Un collezionista che non colleziona. Adriano Sofri la sua inclinazione la coltiva così: i volumi che negli anni ha capitalizzato li dissemina. «Sono stato bibliofilo e, come si deve, maniaco. Essendo povero, compravo interi magazzini di amici rigattieri. Case di amici ospitano migliaia di miei libri - miei per modo di dire - che stanno lì, non li vedo, so che mi sopravviveranno», spiega. «Ho smesso quando sono andato a Sarajevo, là i vecchi professori di letteratura russa bruciavano i quinterni dei Fratelli Karamazov per scaldare un po’ i nipotini: c’erano dunque modi migliori di impiegare i propri spiccioli».
L’ex leader di Lotta Continua è appena rientrato nella casa di campagna vicino a Firenze dopo un intervento chirurgico e ha trovato ad accoglierlo, e forse a consolarlo, quei pochi compagni di viaggio, quei libri che considera più vicini e «suoi». Intanto scala le classifiche il suo ultimo racconto-saggio, La notte che Pinelli (Sellerio), dedicato alla ricostruzione della morte dell’anarchico coinvolto nelle indagini sulla strage di Piazza Fontana. Agli arresti domiciliari e tra i condannati per l’assassinio di Luigi Calabresi, Sofri vi ha sviluppato le sue considerazioni sul proprio ruolo nell’ omicidio del commissario. Con sguardo scrutatore alla Todo modo, come in un poliziesco di Sciascia, si dichiara innocente «dal punto di vista materiale», riconoscendo la sua «responsabilità morale». Un resoconto che si nutre di una distesa sterminata di faldoni giudiziari. «Non credo di aver avuto dei modelli: non consapevolmente, almeno», commenta. «Ormai scrivo tanto che copio da me stesso. Non sono mai stato lettore di gialli. Ho però riletto le innumerevoli, e stranamente ignorate, carte della storia di Pinelli. E ho molto immaginato la scena di quella notte».
Sulle orme del filologo Giorgio Pasquali, Pasolini sentenziava: «I maestri vanno mangiati in salsa piccante». Pure lei è uno che non sempre li ha ben digeriti. E quelli di carta?
«Cattivi maestri letterari non me ne vengono in mente, buoni sì: Cuore. Io ebbi una madre insegnante, e fui un bravo lettore del libro Cuore. Se i tempi si fossero prestati, sarei stato un buon tamburino sardo, o una piccola vedetta lombarda. Ora i venti soffiano dall’altra parte, si viene dalle Ande agli Appennini, e all’arrivo, se si va a chiedere notizie della mamma al Pronto Soccorso, il medico di turno è istigato a denunciarti».
Letture delle medie e del liceo?
«Tante. Hanno una gran responsabilità nella formazione dei ragazzini che hanno la fortuna di frequentare i libri. E viceversa i ragazzini sono responsabili del destino cui piegano i libri che leggono. A cominciare dall’amore. Credo di aver avuto una decina d’anni quando uscì il volumetto della Bur sul Dolce stil novo: lo imparai a memoria e diventai dolcestilnovista perduto. Quando venne - tardi, piano - il momento di passare ai fatti, fui particolarmente maldestro e rozzo. A quella iniziazione stilnovista - ”Avete in voi li fiori e la verdura” - resto attaccato: ho comprato i volumi dei Meridiani sui poeti della scuola siciliana e li ho messi da parte per il giorno in cui, a fine pena, se ci arrivo, andrò a vivere, cioè a morire, nella Terra del Fuoco».
Donne meno eteree e più di carne?
«Detesto l’esplicitezza amorosa. Della notte di Julien con madame de Rênal, nel Rosso e il nero, Stendhal dice solo che alla mattina lui non aveva più niente da desiderare, e lei non aveva più niente da negargli. In Madame Bovary Léon ed Emma sono saliti su una carrozza e hanno tirato le tendine: di qui comincia una forsennata corsa della carrozza, a vanvera, avanti e indietro, per i viali della cittadina. La descrizione amorosa coincide con il furibondo itinerario senza meta della carrozza. Quando si ferma, e ne scende una donna col velo calato sul viso, si immagina facilmente che non avesse più niente da negargli. Sono della generazione che da bambina fece in tempo a vedere le velette, e a sentirsi chiedere se la riga della calza di nailon era diritta».
Altre letture per crescere?
«Da ragazzo, forse perché ero mingherlino e frequentavo, per rivalsa, i ragazzi più grandi, mi piacevano le storie delle donne d’altri: Il grande Meaulnes, il Tonio Kröger. Come si fa a non desiderare le donne d’altri. E anche La montagna incantata, con quella meravigliosa madame Chauchat, la rileggo volentieri, saltando Naphta e Settembrini, come tutti gli adolescenti che si rispettino. Guerra e pace la rileggo senza saltare niente, nemmeno Napoleone, e strizzando l’occhio a Kutuzov. E anche Moby Dick, che mi offrì il più importante riscontro, nel corpo a corpo con la Balena Bianca, al bilancio filosofico di tutto quello che ho vissuto e capito, sotto forma dell’antitesi fra il nodo e il chiodo».
In carcere? Sodali nella detenzione i testi di amici cari, come Elsa Morante o Pasolini?
«Stendhal è stato a lungo il mio prediletto. Elsa Morante, quando ero molto giovane, mi paragonò a Julien Sorel, per corteggiarmi un po’. Quando finii in galera, a un’età indecente per il protagonista di un romanzo, sembravo un avventuriero fallito perché i tempi non erano stati propizi, come Julien e il suo napoleonismo in ritardo. Niente di eroico. Stendhal l’ho riletto soprattutto per rintracciarvi, a confronto con la nostra nuova longevità, quella formidabile e snobistica competenza nelle date e nelle cifre. ”La società del 1829”. ”Il 3 settembre 1838 ho avuto l’idea della Certosa” - manca solo l’ora esatta. ”Gina poteva avere allora tredici anni ma ne dimostrava diciotto”. ”Aveva trentun anni ed era convinta che fosse arrivato il momento di ritirarsi”. Il conte Mosca è ”un timido innamorato di quarantacinque anni”. La Sanseverina: ”... poter amare oggi, a trenta anni passati, come amavo a ventidue!”. L’amore, l’inesorabilità della cronologia, la cronaca della moda. Pasolini ebbe la stessa sensibilità da annalista, e se ne compiacque. Le fisionomie delle persone e le loro anime, e i viali di città e le campagne e i loro odori, durano e cambiano secondo un calendario lento e d’improvviso brusco, fino a segnare un passaggio di civiltà nel giro di una stagione, di una mattina. La pagina più famosa è anche la più esemplare - l’articolo delle lucciole. Ci sono le lucciole, poi la rarefazione, e poi d’un tratto non ci sono più, e chi deve governare la terra non se ne è nemmeno accorto».
Per superare asprezze, scogli?
«Ho avuto avventure che non provo nemmeno a raccontare, in Cecenia: me la sono cavata per fortuna, e anche perché avevo letto il Tolstoj di Tre morti e il Pushkin della Figlia del capitano. Ho passato ore con Pugacioff in persona. Nient’altro che un impostore e un terrorista, se non ci fossero i romanzi. I libri sono anche preveggenti, solo perché si permettono di immaginare le vite degli altri. E’ uscito l’anno scorso per Longanesi un romanzo di Emmanuelle de Villepin, La ragazza che non voleva morire, l’ho letto con curiosità perché aveva un versante appassionatamente ceceno. Il 19 gennaio scorso a Mosca è stato assassinato Stanislav Markelov, l’avvocato che aveva difeso Elza Kungaeva, la giovane donna stuprata e assassinata dal colonnello Budanov, appena rimesso in libertà. Nel romanzo c’era un avvocato che difendeva una giovane cecena stuprata, e si chiamava Kungaev».
Il piacere della lettura?
«Viene dall’agnizione. Dalla consapevolezza che sotto i panni del barbone, o della servetta, o del giovanotto dalla barba incolta e gli occhi febbricitanti, si cela un eroe, una principessa, un gran solista di violino, e fra poco tutti se ne accorgeranno. La cicatrice di Ulisse o Sissi al ballo di corte. Mi piaceva, per questo, il Mark Twain del Principe e il povero: non solo per il povero principe, anche per il povero povero, che schiacciava le noci col sigillo reale. Penso che dovremmo ricordarcene tutti di fronte ai pellegrini che sbarcano a Lampedusa: potrebbero essere un gran violinista, una principessa, o il padre del presidente degli Stati Uniti».
E viene anche da altro...
«Può succedere di leggere e avere un’idea, oppure di avere un’idea e di leggerci sopra. Ho riletto la storia delle interpretazioni della fine di Roma di Santo Mazzarino, La fine del mondo antico. Mi aveva attratto allora la tesi secondo cui una grande civiltà si disfa per effetto di una "selezione alla rovescia" della sua classe dirigente. Trovo che la "selezione alla rovescia" sia una buona chiave di interpretazione per la fantastica rovina della nostra piccola società».
Ultimissimi piaceri?
«Ormai sono un cattivo lettore. E’ raro che legga gratuitamente, come si deve fare. Per piacere caso mai rileggo. Guidato da un interesse particolare: per esempio, sto accumulando i testi (anche cinematografici, anche di canzoni) in cui si fa l’apologia del fenomeno più disgustosamente rivelatore dei nostri giorni, l’assassinio di donne da parte di uomini. Titoli come Assassino, speranza delle donne di Oskar Kokoschka, o il Moosbrugger di Musil, o lo stesso Dostoevskij - la Nastasja dell’Idiota e già, benché la cosa sia meno vistosa, la vecchietta di Delitto e castigo. Oppure leggo per nobilitare circostanze quotidiane non invidiabili: sono appena stato operato per un cancro alla prostata, evenienza frequente negli uomini della mia età, e alla fine del ricovero avevo letto Il fantasma esce di scena di Philip Roth, che è un romanzo sulla prostata: non riuscitissimo, né il romanzo, né l’intervento chirurgico su Zuckerman».