Federico Rendina, Il sole 24 ore 26/2/2009, 26 febbraio 2009
PER IL NUCLEARE ITALIANO E’ GIA’ UNA CORSA A OSTACOLI
Individuare i siti, convincere le comunità locali, finanziare i progetti, certificare la sicurezza, piazzare e gestire le scorie. lastricata di intralci, e soprattutto di soluzioni ancora indefinite, la strada del "nuovo" nucleare italiano.
Sono passate 24 ore dal grande annuncio congiunto di Berlusconi e Sarkozy, corroborato dalla tabella di marcia tracciata dal ministro dello Sviluppo Claudio Scajola. L’accordo tra Enel e Edf per un primo lotto di quattro centrali Epr di terza generazione procederà spedito, dice il ministro: sei mesi per il progetto di fattibilità e poi i piani operativi attraverso società miste, partecipate da chi vorrà ma guidate da Enel.
Oltre 6600 megawatt tra il 2020 (quando dovrà partire la prima centrale) e il quinquennio successivo, per garantire fin d’ora la metà del percorso che al 2030 dovrebbe garantire all’Italia almeno il 25% della generazione elettrica da nucleare, diversificando le fonti di approvvigionamento (ora monopolizzate dal gas metano) e portando a livelli "europei" le nostre bollette, ora mediamente più care del 30%.
I tecnici si rimboccano le maniche. Ma altrettanto doverosamente si cerca di mettere insieme le promesse con la realtà. Che deve fare i conti con un quadro normativo decisamente ritardatario.
Il quadro di riferimento doveva nascere, mesi fa, dall’approvazione del ddl "sviluppo" che contiene, nella corposa parte sull’energia, tutti i provvedimenti che dovrebbero fare da involucro operativo al nostro ritorno all’atomo: dalla delega al Governo per fissare i criteri sui siti e sulla tecnologia da adottare all’istituzione dell’agenzia per la sicurezza nucleare, dalla metodologia per invogliare a colpi di incentivi le popolazioni fino alla ridefinizione del ruolo e perfino delle strutture di Enea (ricerca e promozione industriale) e Sogin (decommissioning delle strutture passate e future). Il tutto con il consueto metodo dei provvedimenti legislativi omnibus allestiti in Italia, che rinviano la sostanza a successivi provvedimenti e decreti attuativi, in un dedalo di deleghe.
Sta di fatto che il ddl, approvato in una prima versione alla Camera, arranca al Senato con grande lentezza. «Sarà pronto in primavera» azzarda Scajola. Che a ben vedere traccia già un insuccesso: i criteri per i siti nucleari italiani – prevede ad esempio il testo del ddl – dovevano arrivare entro l’estate. Impossibile. Considerando, ad esempio, la lunga sequenza di fallimenti collezionati negli scorsi anni nella ricerca di una soluzione logistica almeno per le nostre vecchie scorie. Per non parlare della marea di proteste anti-atomo che da ieri sta di nuovo montando nel paese. Siamo, insomma, in alto mare.
«Bene l’accordo Italia Francia» ma ora – dice Antonio Costato, vicepresidente di Confindustria per l’energia e il mercato – il Governo deve definire il quadro tecnico-normativo e «dovrebbe garantire l’investitore dai possibili rischi rappresentati da burocrazia e comitati».
Emblematica la diagnosi di Alessandro Clerici, 40 anni di esperienza in giro per il mondo, presidente onorario della sezione italiana del Wec (World Energy Council) e coordinatore del gruppo internazionale di lavoro sul nucleare. Clerici ci aiuta a focalizzare la partita finanziaria della sfida, caratterizzata come noto da costi di costruzione e manutenzione tripli rispetto alle classiche centrali a ciclo combinato di gas che hanno colonizzato la nostra penisola, compensati da un costo del combustibile ridotto ad una frazione. Ma Clerici ci ammonisce anche sul nostro magmatico senario di riferimento.
I costi: considerano (va obbligatoriamente fatto) gli accantonamenti per il decommissioning e per la gestione delle scorie le centrali nucleari già operative nel mondo, già ammortizzate, garantiscono un costo finale di produzione attorno ai 20 euro a megawattora, circa un terzo rispetto ad una buona centrale a carbone e meno di un quarto rispetto al costo di produzione di una moderna centrale a turbogas. Ma il nucleare resta comunque competitivo anche in caso di nuova costruzione di una centrale di terza generazione come l’Epr, a cui Clerici attribuisce un costo di produzione, tutto compreso, «tra 50 e 60 euro a megawattora per ordini di più centrali» considerano che una buona economia di scala di avrebbe – nelle valutazioni degli analisti – anche con le "sole" quattro centrali che dovrebbero intanto nascere dall’accordo Enel-Edf.
I costi di allestimento sono comunque colossali, almeno tripli rispetto alla potenza da installare rispetto a quelli del turbogas: attorno ai 3mila euro per chilowatt. Siamo dunque sui 5 miliardi a reattore (1.660 megawatt, nel caso dell’Epr). Di qui il valore dell’investimento ipotizzabile per l’operazione italo-francese qui da noi: circa 20 miliardi.
Ma ecco, da Clerici, il monito sulle regole. «Sono indispensabili regole chiare e di dettaglio, controllori e decreti applicativi definiti in modo bipartisan, trasparente ed efficace, nonché una comunicazione capillare dalla quale emerga che il nucleare è un’opzione che non si può trascurare. Non va visto come rivincita del referendum e non in antitesi ad esso, ma complementare con le rinnovabili, fornendo una produzione di energia di base e non aleatoria come quella da eolico e da fotovoltaico». Parola di superesperto. Ma la politica, si sa, è un’altra cosa.