Lorenzo Dilena, LiberoMercato 27/2/2009, 27 febbraio 2009
ECCO IL RIGORE DELLA BANCA D’ITALIA
Mentre negli Stati Uniti sono partiti i primi ”stress test” sulle banche per verificarne la tenuta patrimoniale in contesti particolarmente critici, all’esito del quale se ne deciderne la nazionalizzazione, gli istituti italiani si stanno preparando al secondo round. I tecnici della Banca d’Italia - stando a quanto LiberoMercato ha appreso da fonti autorevoli - sono già pronti per questa seconda tornata di verifiche, che possono essere considerate come prove di resistenza «a seguito di shock ipotetici, estremi ma plausibili». I test sottopongono gli attivi e il patrimonio delle diverse banche a una serie di scenari catastrofici e sono condotti in stretta collaborazione con il management, in modo da tenere conto delle specificità e calibrarli al profilo di rischio del singolo intermediario.
Già un anno fa Bankitalia aveva fatto ricorso allo strumento dello ”stress testing” e, riferiscono le fonti, (...)
(...) «gli esiti positivi sono tuttora validi». Ovviamente, informazioni più precise potranno essere ottenute mano a mano che le banche avranno disponibili i risultati sull’esercizio 2008, su cui però stanno ancora lavorando (sono attesi da metà marzo in avanti). Accantonamenti su crediti e svalutazioni degli attivi potrebbero d’altra parte cambiare anche profondamente i connotati di rischio e la forza patrimoniale dei vari gruppi.
La prima serie di stress test era stata condotta, infatti, sulla base dei livelli di patrimonializzazione esistenti e con le regole esistenti. Da tempo, però, il governatore Mario Draghi ha chiesto obiettivi di solidità superiori, in particolare un coefficiente di stabilità (total capital ratio) del 10% contro l’8% chiesto dalla normativa di Basilea. Le banche sono state inoltre sollecitate ad adottare gli opportuni provvedimenti (accantonamento di tutto l’utile, cessioni e altre operazioni di gestione del capitale) per raggiungere livelli di coefficiente di base (tier1) più elevati rispetto al 4-5% che veniva considerato sufficiente prima della crisi. Di recente, riferiscono fonti bancarie, l’azione di sensibilizzazione sulla necessità di dotazioni patrimoniali superiori al minimo è stata rafforzata.
I criteri utilizzati per il primo round di test, aggiungono le fonti, sono sufficientemente rigidi anche rispetto a quelli utilizzati dalle autorità statunitensi per i loro stress test. Queste ultime stanno facendo ricorso al ”tangibile common equity (Tce) ratio”, che rapporta il «tangible common equity» (vale a dire azioni ordinarie al netto dell’avviamento e delle altre attività immateriali) al totale attivo tangibile, (cioè alle attività totali al netto di quelle immateriali, incluso l’avviamento). Il Tce è quindi una misura della leva finanziaria, espressamente prevista dalle misure di intervento a sostegno del settore finanziario varate negli Stati Uniti (Prompt corrective action), secondo cui sono «criticamente sottocapitalizzate» le istituzioni per le quali il coefficiente è inferiore al 2 per cento. Nel caso degli stress test condotti in Italia, invece, Bankitalia utilizza coefficienti prudenziali, che fanno riferimento non all’attivo di bilancio, ma all’attivo ponderato per il rischio, dove ogni voce piena ”pesata” in base al rischio. Va comunque sottolineato che i coefficiente prudenziale, tier1 e total capital ratio, sono calcolati anch’essi - secondo la normativa vigente a livello europeo - escludendo l’effetto dell’avviamento e delle altre attività immateriali. Secondo una simulazione elaborata da LiberoMercato, nell’edizione di mercoledì 25 febbraio, tutti i principali istituti italiani, sulla scorta dei dati patrimoniali al 30 settembre, avrebbero un Tce superiore al 3%, un livello considerato di sicurezza. Il che è da un lato il riflesso della minore quota di strumenti ibridi di patrimonializzazione presenti nelle banche italiane, sia del minore grado di leva finanziaria. Tale calcolo però andrebbe riverificato alla luce delle risultanze contabili a fine anno, data per cui ci si attende un flusso abbastanza imponente di svalutazioni e accantonamenti.
Lo ”stress” con cui Bankitalia sta monitorando tutta la situazione ha avuto un riflesso molto concreto nel caso Italease. La società di leasing controllata dalle banche popolari è ormai da mesi e mesi in attesa della soluzione che verosimilmente la porterà all’uscita dalla Borsa. Intorno alla società e alla sua imponente mole di impegni che arrivano quest’anno in scadenza (quasi 4 miliardi di euro), c’è un certo nervosismo. Con il cambio di guardia a vertici del Banco Popolare, dove a dicembre si è insediato l’ad Pier Francesco Saviotti, Via Nazionale aveva concesso una dilazione. Ma ora che Saviotti ha sostanzialmente concluso le verifiche sul portafoglio della partecipata Italease, è ripartito il pressing perché si arrivi presto a una svolta che tolga dai riflettori della Borsa una fonte potenziale se non di instabilità quanto meno di nervosismo. Perciò, quando Massimo Minolfi, vicepresidente di Italease e direttore generale del Banco, spingeva perché il debito in scadenza venisse rifinanziato tramite nuovi bond garantiti dal Tesoro, da Bankitalia è arrivato il semaforo rosso: prima il delisting, e poi il ricorso a nuove emissioni garantite dal Tesoro. Il rischio che il solo annuncio generi nuovo panico, e un effetto domino sul sistema, impone prudenza. Sui coefficienti e sugli annunci.