Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  febbraio 26 Giovedì calendario

IL PITTORE

& IL LOTTATORE – INTERVISTA IL SOPRAVVISSUTO ROURKE (’meglio non essere mai stato nessuno che eSCHNABELssere un ”ex qualcuno’”) - bruce: ”una canzone per Mickey. Perché possa tornare a essere quello che merita di essere”…

Da "Vanity Fair"

L’adolescenza sbandata a Miami. La scoperta del teatro, la fuga a New York, la vita di strada, l’incontro decisivo con Francis Ford Coppola che nel 1983 lo lancia in Rusty il selvaggio. E poi il successo e la fama mondiale, a partire da Nove settimane e mezzo.
Michey Rourke

Ma, negli anni Novanta, il declino: il matrimonio disastroso con Carré Otis, i guai con la legge, le parti inspiegabilmente rifiutate (Gli intoccabili, Il silenzio degli innocenti, Rain Man), l’ancor più inspiegabile decisione di abbandonare la professione di attore per quella di pugile. E il rimpianto, e il tentativo di tornare indietro, e il lento e faticoso ritorno ai film.

Sin City a riaccendere la speranza, nel 2005. E finalmente, un anno fa, in The Wrestler di Darren Aronofsky, la parte del protagonista, Randy «L’ariete» Robinson, lottatore di wrestling dalla carriera agli sgoccioli e dalla vita fallimentare.

Un’interpretazione che, nel giro di pochi mesi, gli fa guadagnare più applausi che in tutta la sua carriera: fra i tanti premi vinti, il Leone d’Oro a Venezia, il Golden Globe, il Bafta. E l’appuntamento più irraggiungibile, con l’Oscar. Quella di Mickey Rourke è una parabola incredibile, dolorosa da raccontare.

Per questo abbiamo voluto fargliela raccontare non a un estraneo, ma a un amico. A una persona che, tra l’altro, ha scattato anche le fortissime Polaroid di queste pagine: il grande artista e regista Julian Schnabel. Che ha conosciuto Mickey tanti anni fa per le vie di New York. E che a New York gli ha dato di nuovo appuntamento per creare queste foto e raccogliere questa intervista.

Quando faccio il regista, non voglio che i miei attori recitino. E tu sei uno che non recita. Come fai?
«Facile. Devi farne qualcosa di personale. Perché se è qualcosa di personale, i pensieri che pensi sono veri».

Hai un passato da pugile. In un certo senso una preparazione per il personaggio che interpreti in The Wrestler.
« successo quando ho deciso che dovevo allontanarmi dal cinema per un po’ perché mi accorgevo di essermi, in un certo senso, venduto, e quello era un errore che mi ero sempre ripromesso di non commettere. Avevo accettato due o tre film verso i quali non avevo alcun rispetto, e che mi erano serviti solo a rimettere in sesto le finanze.
Sentivo di non aver reso giustizia al mio potenziale, di aver tradito la promessa che mi ero fatto da giovane: essere sempre il meglio che potevo essere».

Come vedi questo film dal punto di vista della sua natura autobiografica?
«Quando me l’hanno proposto, la cosa che mi attirava di più era l’idea di lavorare con un regista come Aronofsky, un uomo che vuole le cose a modo suo, senza compromessi, pronto a rischiare. E quando ho letto la sceneggiatura, ho pensato: non voglio essere questo personaggio.

Non avevo nessuna voglia di essere in un film sul wrestling, che non è esattamente la mia passione. Da ex pugile, l’ho sempre guardato dall’alto in basso perché è tutto pre-coreografato, tutto finto, puro divertimento».

Ma come storia non ci vedevi un legame con la tua carriera? Una metafora sulle delusioni e sui fallimenti?
«Mi sono detto: devo lavorarci con Darren, possiamo riscrivere le mie scene e migliorarle, perché si parla di esperienze che io ho vissuto. E Darren ha dimostrato di rispettare il mio punto di vista. Mi ha dato il suo tempo, ogni giorno, al termine delle due ore di pesi e delle due ore di allenamento che ho fatto per sei mesi. Ho messo su 17 chili di muscoli, e che mazzo mi sono fatto.

Non mi rendevo conto che avrei potuto farmi male con il wrestling, e invece mi sono trovato tre volte a fare la risonanza magnetica. Perché quando un tizio di 120 chili ti solleva e ti sbatte giù, una volta su due non atterri bene. Non è stata una passeggiata».

Quindi recitare non è davvero recitare.
«C’è qualcosa di molto triste, nella storia, in cui mi sono identificato. Ecco un uomo che si avvicina ai cinquanta e che sta per sentirsi dire: " finita. Il tuo momento è arrivato e se n’è andato". E non fa wrestling al Madison Square Garden davanti a 50 mila persone, ma davanti a 2 mila, nelle piccole palestre del New Jersey. Sua moglie lo ha lasciato, sua figlia è lesbica, e lui non ha avuto tempo per lei, perché è sempre stato in giro a esibirsi.

La sua vita assomiglia a quella che avevo io quando ho detto al mio analista: "Sono passati dieci anni, e non riesco più a lavorare". Lo so, mi ero comportato male, ma l’avevo fatto perché mi mancavano gli strumenti per comportarmi altrimenti. Solo quando ho perduto tutto sono riuscito a guardarmi allo specchio e a dire: "Devo cambiare". Cambiare, per tante persone, sicuramente per me, è la cosa più difficile.

Solo in quel momento mi sono reso conto che avevo bisogno di chiedere aiuto e consiglio a qualcuno che poteva salvarmi la vita. L’analista mi ha spiegato che quei dieci anni li avevo passati in uno stato di vergogna - perché sono un uomo pieno di orgoglio -, di assenza della speranza.

Mi ero indurito, ero diventato molto distante, molto arrogante, molto arrabbiato, e tutto questo per mascherare la vergogna e il complesso di essere stato abbandonato. Quella vergogna e quel complesso - ora lo capisco - erano la causa della mia durezza, della mia distruttività».

Io in te ho sempre visto, piuttosto, la dolcezza. L’ho vista nei confronti dei miei figli, nei confronti dei tuoi cani, nei confronti degli amici veri.
«Quello che intendi dire - credo - è che sono buono di cuore, e quello è un regalo che ho ricevuto da una nonna meravigliosa. Il mio problema era che, se mi sentivo mancare di rispetto, andavo in corto circuito. La mia miccia era parecchio corta, si scatenava in me qualcosa di molto cupo. E io non riuscivo a metterci sopra un coperchio».

Però, con le persone che ti trattavano con rispetto e cortesia, ti comportavi in tutt’altro modo.
«Se ti rispetto, ti do tutto quello che ho. Ma se non ti rispetto, sta’ pur tranquillo che ti rendo la vita difficile. Il cambiamento che ho dovuto affrontare è stato proprio questo: imparare a lavorare solo con le persone che rispetto, e solo nei progetti che rispetto.

Non posso accettare un lavoro solo perché mi offrono una montagna di soldi, ormai l’ho capito. Meglio guadagnare meno e lavorare in film che mi piacciono, con gente che mi piace, che svegliarsi ogni giorno con l’angoscia di dover tornare sul set».

Ricordi la prima volta che sei venuto qui a New York?
«Era il 1974».

Ti ho conosciuto dopo Rusty il selvaggio. Era il tuo primo assaggio di successo, e ricordo che volevi condividerlo con tutti. Ma poi ti ho visto perderti.
«Avevo fatto la vita di strada, e quello è un bagaglio che ti porti dietro. Affrontavo il mestiere di attore come fossi stato ancora sulla Quarantaduesima, a lavorare per i bordelli».

 questo che facevi?
«Ti parlo di quando la Quarantaduesima era ancora la Quarantaduesima. Ero responsabile dei giovani portoricani che distribuivano i foglietti pubblicitari ai passanti. Io dovevo controllare che li distribuissero davvero, ma anche tenere alla larga i magnaccia, che glieli rubavano perché facevamo concorrenza alle loro prostitute, quelle sul marciapiede».

Ti sarà capitato di scazzottarti.
«Certo».

Quindi hai fatto spesso a botte, da ragazzo.
«Molto spesso, e non è una cosa di cui mi vanto. Lì non si trattava nemmeno di rispetto.
Era semplice sopravvivenza».

C’è una scena, nel film, dove sei in un negozio, un tizio ti riconosce, ti chiede il tuo nome, e tu non gli vuoi rispondere. Mi spieghi di che si tratta?
« esattamente quello che succedeva a me, qualche anno fa. Entravo a comprare le sigarette, mi mettevo in fila e arrivava l’idiota che mi diceva: "Ma tu sei quello che... come si chiamava? Quello che recitava al cinema". E io, alla cassiera: "Mi può dare il fottutissimo resto, così esco di qui?".

 umiliante: meglio non essere mai stato nessuno che essere un "ex qualcuno". Provi vergogna, e cerchi di nasconderla. Quando ho incontrato Darren, ho subito capito perché mi voleva in questo film. Voleva che attingessi a un posto molto scuro e doloroso, dentro di me. Sapevo che aveva bisogno di me per trovarlo. Voleva la mia libbra di carne (la garanzia che, nel Mercante di Venezia di Shakespeare, Antonio offre in cambio di un prestito, ndr), voleva il mio sangue.

E io gli ho detto: sai che cosa? il momento che io mi dia da fare, se voglio una seconda possibilità. E per averla ho bisogno di un regista con le palle. A produzione appena avviata, hanno deciso di sostituirmi con un altro. E io - devo ammetterlo - ero quasi contento, perché non ero sicuro di voler visitare quel posto scuro e doloroso».

Perché avevano deciso di sostituirti?
«Con un nome come il mio faticavano a trovare finanziamenti. Avevano bisogno di una grossa star. Per due settimane mi hanno sostituito sul serio. Poi, una chiamata: volevano di nuovo me».

E tu come ti sei sentito?
«Per niente entusiasta. Avevo già fatto la bocca all’idea di scivolare via».

Ma poi devi esserti detto: questo film lo devo fare.
«Esatto. La parte intelligente del mio cervello deve essersi resa conto che questa era una possibilità irripetibile per riacquistare...».

Il tuo titolo.
«La mia posizione, il mio fottuto titolo. E quando abbiamo terminato le riprese, e a quel punto sapevo che avevamo in mano qualcosa di speciale, ho scritto una lunga e bella letterina personale a Bruce Springsteen. Non potevamo certo pagarlo milioni di dollari per una canzone, così gli ho scritto una lettera molto sincera.

Gli ho spiegato che questo secondo me era il film più difficile che avessi mai fatto, e il migliore che avessi mai fatto, e che mi sarei ritenuto molto fortunato se avessi potuto coinvolgere una delle persone che mi avevano aiutato a cambiare vita. Devi sapere che, nel periodo "perduto", ero stato così stupido da non rivolgere la parola a Bruce per 13 anni. "Sono così contento", gli ho scritto, "di non essere più quello stronzo lì".

Bruce mi ha risposto qualche mese più tardi. Sono a Miami, è notte fonda e ricevo una chiamata dall’Europa, dove lui è in tournée. Mi fa: "Ho letto la sceneggiatura e ti ho scritto una canzone, una cosa piccola". la canzone - intitolata proprio The Wrestler - che si sente sui titoli di coda, e che riassume il personaggio.

L’ho ascoltata centinaia di volte, in casa, da solo, e ogni volta ho pensato: cazzo, l’ha proprio centrata in pieno. stato come uno splendido regalo di compleanno, o di Natale. Gli sono enormemente grato. Anche per quello che ha detto a Darren quando gli ha spiegato perché l’aveva scritta».

Che cosa gli ha detto?
«L’ho fatto per Mickey. Perché possa tornare a essere quello che merita di essere».