Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  febbraio 27 Venerdì calendario

«IL RISCHIO? CHE ORA CADANO ANCHE I GOVERNI»

Francese anglofilo o semplicemente cittadino globale che sia, pochi come Dominique Moïsi possono dire di aver sondato le tappe della storia presente. Figlio di un sopravvissuto di Auschwitz, classe ’46, assistente di Raymond Aron alla Sorbona, Moïsi oggi insegna a Harvard, pubblica i suoi commenti sul Financial Times e si è imposto all’attenzione internazionale con il suo ultimo saggio sulla «geopolitica dell’emozione».
Questi mesi Moïsi deve vederli dalle finestre del suo ufficio nel Massachusetts come una riprova in grandezza naturale delle sue idee: l’Occidente assalito dalla paura, l’Asia emergente aggrappata alla speranza, la sfiducia e l’umiliazione fra le masse di diseredati musulmani. La prima recessione globale, avverte Moïsi, sta per trasformarsi in un evento politico: «Se la crisi continua ad aggravarsi e l’America non rende la speranza al mondo con il rilancio dell’economia - dice - siamo alla vigilia di una traduzione in politica della crisi stessa». Non è difficile del resto individuare i Paesi più vulnerabili: quelli più esposti in termini economici e più deboli politicamente. «Lo vediamo nella nuova Europa dove i governi cadono, come in Lettonia. solo l’inizio», osserva il politologo.
Non che le gloriose democrazie occidentali siano al di sopra di ogni sospetto. «In Francia - incalza Moïsi l’ascesa dell’estrema sinistra è il risultato delle divisioni profonde del partito socialista e del calo di popolarità di Nicolas Sarkozy». Eppure non tutte le situazioni vanno gettate nelle stesso paniere, perché i Paesi sono entrati nella globalizzazione da porte diverse e ora in modo diverso soffrono. La Russia e la Cina, ad esempio, appartengono a una categoria a sé.
«A Mosca come a Pechino - spiega Moïsi - il messaggio del potere ai cittadini consisteva nel dire "arricchitevi e lasciatemi governare", ma ora quel contratto sociale si è rotto, perché i russi e i cinesi hanno smesso di arricchirsi». Vista da Harvard, la leadership di Pechino sembra comunque avere più carte per uscirne indenne. «La crescita russa era più artificiale perché basata sullo sfruttamento di ricchezza, quella degli idrocarburi, più che sulla creazione di ricchezza come in Cina. E a Mosca cominciano ad apparire divisioni fra Vladimir Putin e Dmitrij Medvedev, mentre la leadership cinese appare più compatta».
Quanto all’Europa, anche qui emerge il potere politico delle emozioni. «La crisi mostra l’importanza dell’Unione europea e dell’euro, senza il quale certi Paesi sarebbero in seria difficoltà. Razionalmente tutto ciò spinge a più Europa», concede il professore. Il paradosso di Moïsi è però che «emozionalmente la crisi spinge verso meno Europa, perché questa appare ai cittadini irrilevante fra gli Stati Uniti che detengono le chiavi della soluzione della crisi e i governi nazionali ». L’Europa soffre di anonimato, gli europei si rivolgono alla nazione in cerca di tutele. E se non le trovano, è il momento della piazza e dei sondaggi a picco. qui che Moïsi ha una previsione sull’uscita dal tunnel: la Cina o l’India ne emergeranno relativamente più forti, la Russia meno. E l’Occidente, se non ritrova la fiducia in sé, semplicemente meno protagonista di prima.