Giampaolo Pansa, il Riformista 19/2/2009, 19 febbraio 2009
UN UOMO FELICE IN FUGA
La voglia di scappare gli usciva persino dal celebre neo sulla guanciona sinistra. Ed era così forte da spingerlo a dare l’ultima fregatura ai media. Nessuna conferenza stampa. Appena un comizio con tifoseria al seguito. Banalità a gogò, tutta roba già sentita, ancorché recitata con il solito fervore.
Certo, sono rimasto deluso. Poi, a mente fredda, mi sono detto che non potevo aspettarmi altro. Walter si era finalmente calato nella parte che conosce meglio. Quella del politico sconfitto che taglia la corda. E tuttavia riesce sempre a essere un perdente di successo, capace di passare da un incarico all’altro.
Ma stavolta, forse, Veltroni non ce la farà a ripetere il gioco. Per lui, e per i politici come lui, si è chiusa una stagione. Tra poco l’Italia dei partiti nati nell’altro secolo diventerà un deserto. Dove resteranno soltanto le parole che i cronisti anziani hanno scritto per tanto tempo.
Quante volte mi sono occupato di Walter? Decine e decine. Quante parole su di lui ho messo nero su bianco? Qualche milione. Pensavo di non scriverne più. Mi ero stancato del personaggio. E credevo che non potesse più sorprendermi. Sbagliavo. Ed eccomi qui a ricordare, con passo veloce, il percorso di un leader politico che ha incontrato più sconfitte che vittorie.
La sua prima sconfitta risale all’estate di quindici anni fa, quella del 1994. In primavera Achille Occhetto perde le elezioni contro un esordiente destinato, da allora in poi, a vincere quasi sempre: Silvio Berlusconi. Baffo di Ferro è costretto a lasciare le Botteghe Oscure, ma non vuole affidare lo scettro a Massimo D’Alema. E così decide di gettargli tra le ruote un candidato a sorpresa: Veltroni.
In quel momento Walter sta per compiere 39 anni e dirige l’Unità. Tre eminenze occhettiane (Fassino, Petruccioli e Mussi) cominciano a costruire le sua candidatura. Sulle prime sembrano lavorare a dispetto del candidato. Con il candore di un bambino, Walter giura a mezzo mondo che non aspira a entrare al Bottegone. E promette: «Il mio lavoro resterà quello di dirigere il giornale del nostro partito. l’unico impegno che mi appassioni».
Come molti politici, anche Walter è un sitnpatico bugiardo. Chi lo frequenta, racconta che si vede già al vertice dei Ds. Il 22 giugno spiega a Barbara Palombelli, per un articolo su Repubblica: «Il mio sogno? Un milione di persone in piazza. E non per salutare qualcuno che se ne va, come è accaduto per Berlinguer. Ma per festeggiare qualcosa che comincia. Sogno una sinistra unita, che ritrova le ragioni della speranza, riaccende un fuoco, riscopre ideali».
I due caildidati a sostituire Occhetto sono personaggi agli antipodi. D’Alema è superbo, un bruscone come pochi, sempre pronto a fronteggiare i giornali con la scimitarra in pugno. Un cronista gli chiede se è vero che abbia stretto un patto di non aggressione con Veltroni. E Max sibila, gelido: «Sono cazzi nostri». Walter è il buonista gaudioso. Sorride da tutti i pori. E fa spallucce a un amico che lo striglia: «Se vuoi essere un numero uno, devi smettere di dar ragione a tutti». Lui sospira: «Sono fatto così, non posso odiare nessuno».
Il sogno di Veltroni svanisce il 1 luglio 1994, alla Fiera di Roma. Il Consiglio nazionale dei Ds è chiamato a eleggere il segretario. Ricordo una mattina di caldo soffocante. Max è una tigre di marmo. Sembra che il voto non lo riguardi. Walter è un ragazzone giulivo. Durante lo spoglio delle schede, discute con noi cronisti sul futuro della Juventus. Soltanto Fassino è agitato e siede sui carboni ardenti. Forse prevede la mazzata in arrivo.
Infatti, D’Alema vince e Veltroni perde. Walter incassa la sconfitta da gran signore. Dice ad Alberto Statera della Stampa: «Mi vede pallido. Ma è colpa di una dieta feroce. Stavo ingrassando e in un mese e mezzo ho perso tredici chili». Snello e contento, telefona alla figlia Martina: «Dobbiamo essere allegri. Lo zio Massimo ci ha salvato le vacanze!».
Walter rimane a guidare l’Unità. Fa un bel giornale che non ha nulla del foglio di battaglia politica. Mai ruvido con gli avversari. Niente campagne carogna. Articoli intelligenti e spesso inutili. Rammento certi paginoni assurdi. Il Museo dei bidoni. Dalla trota pelosa allo yeti. L’artigiano che fabbrica alabarde per il cinema. Professione sub, un sessantottino sotto il mare. E via cazzeggiando, per la delizia della rubrica "Chi se ne frega" del maledetto Cuore.
Ma il Perdente cerca la rivincita. Ne ottiene una nell’estate del 1995. Vittoria d’immagine, con il libro "La bella politica", titolo che più veltroniano non si può. «Centomila copie vendute» dichiara Walter. Trionfo di pubblico e di critica. Persino Romano Prodi non si sottrae all’obbligo dei santino. Geloso, D’Alema scrive un libro anche lui: sessanta pagine sull’Italia normle, con un’appendice di ritagli incollati da Gianni Cuperlo e Claudio Velardi. E le due opere diventano la canzone dell’estate in tutte le feste dell’Unità.
Alla festa nazionale gareggiano le coppie D’Alema-Maurizio Costanzo e Veltroni-Giovanni Minoli. Una kermesse di luci della ribalta, fra selve di telecamere con calza di nylon incorporata, recensioni lecchine, intervistatori da palcoscenico. Ma sul fondo dei tendoni in delirio sta in agguato la destra, nella persona di Vittorio Feltri, direttore del Giornale. E in agosto, il sabotatore bergamasco va all’attacco su un fronte imprevisto: Affittopoli.
Walter, sia pure non da solo, si vede messo alle corde. Anche lui è tra gli inquilini delle case offerte ai vip dagli enti previdenziali. E una volta tanto va fuori dai fogli. Ricordo una "bonda telefonata all’Espresso di Claudio Rinaldi: «Pure voi ci avete preso a calci in faccia!». Gli dico: «Perché non replichi sull’Unità, se hai gli argomenti per farlo?». La risposta di Walter mi lascia secco: «Non posso, perché noi siamo un giornale d’informazione». Per Veltroni è un finale d’estate violento. In tivù, ha lo sguardo smarrito del tacchino inseguito dal cuoco alla vigilia di Natale. Ma si riprende presto, fiducioso nella sua buona stella. Siamo alla primavera del 1996. Prodi lo fa correre con lui nella squadra dell’Ulivo. Walter vorrebbe candidarsi alla Camera nel collegio di Suzzara, l’unico vinto in Lombardia dai progressisti nel 1994. Poi D’Alema, dal Bottegone, gli ruggisce: «Non puoi farlo. Sarebbe un’indecenza». E Walter deve afrrontare la battaglia a Roma 1, contro il magistrato Filippo Maricuso. E’ un match da film dell’orrore. Il più perfido del Polo di centrodestra contro il più buono dell’Ulivo. A vincere è Walter. Rifulge il suo profilo da libro "Cuore". Il compagno di banco che ti ne fa copiare il compito. Il vicino di casa che accorre quando il lavandino perde. Uno dei suoi slogan, dedicato all’ambiente, sembra fabbricato apposta per lui: «Chi lo ama è riamato». Ma Walter deve sopportare un ritratto al curaro affidato da Mancuso a Francesco Merlo, del Corriere della sera. Il vecchio giudice palermitano dice parole che nessuno oserà più ripetere: «Veltroni è un elencatore di luoghi comuni. Parla di cose che non sa. Cita libri che non legge. E’ un anglista che non conosce l’inglese. Un buonista senza bontà. Un americano senza America. Un professionista senza professione». Prodi lo porta con sé a Palazzo Chigi. Ci abiteranno per poco. Il 9 ottobre 1998 il Governo cade per un voto solo, ucciso da Rifondazione comunista. Al Professore subentra D’Alema. E Walter, sconfitto come vice premier, trova una via d’uscita proprio grazie a Max. E’ Baffino d’Acciaio che lo designa a succedergli nella segreteria dei Ds. Perdente di successo, WaIter viene eletto da una maggioranza bulgara: l’89,1 per cento. La prima uscita di Walter lascia interdetti. Visita in prigione Adriano Soffi e auspica la revisione del processo per l’assassinio del Commissario Calabresi.
Quindi va a raccogliersi sulla tomba di don Giuseppe Dossetti, l’icona della sinistra democristiana, diventato prete. Cavolo! Carcerati, morti ammazati, sepolcri di sant’uomini.
La spalla di Walter, Pietro Folena, poi diventato rifondarolo, s’affanna a spiegare: la nostra è attenzione alla sofferenza e alla contarninazione di culture. Ma a qualcuno sembra un presagio tetro. E in tanti si chiedono: l’epoca di Walter al Bottegone sarà di sangue versato e di lacrime a gogò?
L’anno successivo il sangue comincia a versarlo H partito. Elezioni europee del 13 giugno 1999: n’spetto alle politiche dei 1996, i Ds perdono per strada due milioni e mezzo di elettori. Forza Italia diventa la prima parrocchia politica d’Italia. In tivù compare un Veltroni disfatto, stressato, i capelli ritti, il famoso neo quasi pendulo, mentre borbotta formule fumose.
Come non capirlo? Ecco in che modo Walter descrive il suo partito nel luglio 1999: «E’ gracile e arrogante. Ha sostituito il centralismo democratico con il casino. Siamo pieni di intrighi, di correnti, di lotte interne. Sono spaventato da una Quercia ricca non di opinioni, ma di guerre intestine».
E’ un ritratto simile a quello di oggi. E spiega perché, alla fine del giugno 1999, i Ds abbiano perso il comune di Bologna. Per la prima volta nel dopoguerra, la città simbolo del neo comunismo veltroniano, non ha più un sindaco rosso, bensì un intelligente e bonario macellaio di centrodestra: Giorgio Guazzaloca.
Passano sei mesi e, il 15 gennaio 2000, Walter è rieletto segretario dei Ds,al congresso del Lingotto a Torino. Quello del motto di don Nfilani: «I care». Ma la Quercia è in pieno marasma da correnti e da clan. Ulivisti puri. Miglioiisfi superstiti. Veltroniani. Dalemisti. Pontieri. Sinistra tenera. Sinistra dura. Laburisti nostrani. Crisfianosociali. Sinistra repubblicana. Comunisti unitari. E riformatori per l’Europa.
Morale: il 16 giugno di quell’anno arriva una nuova batosta elettorale per Ds e alleati. Sconfitti in otto regioni su quindici. Il giorno successivo, D’Alema si dimette da premier e cede la poltrona a Giuliano Amato. Nel partito Walter è sotto accusa, anche se il disastro viene da lontano e non può essere addebitato soltanto a lui. Ma è in quell’estate, forse, che il segretario perdente medita la sua exit strategy: uscire dall’agone nazionale per rintanarsi a Roma.
L’occasione si presenta all’inizio del gennaio 200 1: il sindaco della capitale, "Cicciobello" Rutelli, si dimette per guidare il nuovo scontro con Berlusconi, previsto per il maggio di quell’anno. Walter si candida subito a succedergli. Come è possibile? Il leader dei Ds che si rifugia in un municipio, anche se si tratta del Campidoglio? In realtà, Veltroni ha annusato un altro disastro in arrivo. E non vuole morire sul campo di battaglia. Meglio lasciare che la parte del caduto al e fronte tocchi a Rutelli, insieme a Fassino.
E il disastro arriva, alle politiche del 13 maggio 2001. Vittoria schiacciante di Forza Italia. I Ds sono vicini al minimo storico: 16,6 per cento. Lo stesso giorno, a Walter si batte contro Antonio Tajani per la conquista del Campidoglio. Ma diventa sindaco di Roma soltanto due settimane dopo, al ballottaggio. Veltroni l’ha scampata bella. Ha vinto soltanto in casa, però ha vinto. E bisserà la vittoria nel 2006, con un margine molto ampio.
Roma capoccia e ladrona è ormai sua. L’astuto Walter ne farà la rampa di lancio per nuove avventure. Al partito ci pensi quel i piemontardo faticone di Fassino. Verrà eletto segretario a Pesaro, il 16 novembre 2001. E si troverà contro proprio Veltroni, capo ombra del Correntone di sinistra. Ma Cicciobello II non era un riformista fatto e finito? Non aveva sempre detto di non essere mai stato comunista, bensì berlingueriano? Misteri dell’animo veltroniano.
Dal Campidoglio alla candidatura per la leadership del Partito democratico passa un anno. Ma questa è cronaca dell’oggi. Walter non ha avversari al suo livello. D’Alema rinuncia a mettersi in gioco. Bersani verrà convinto a non gareggiare. L’assenza che più stupisce è quella di Fassino. In un Bestiario sull’Espresso scrivo che forse è dovuta alla faccenda dell’Unipol. E al grido di gioia di Piero: «Abbiamo una banca!».
Quell’accenno mi costa una telefonata furibonda di Fassino, alla metà del luglio 2007. Vale la pena di ricordarla perché apre uno spiraglio sulla guerra all’intemo del vertice diessino. Piero mi urla che sono stato offensivo e insultante. Poi aggiunge: «Walter è stato scelto per le pressioni del gruppo Espresso Repubblica.
E di Paolo Mieli, il direttore del Corriere.E’ da mesi che stanno costruendo la sua candidatura. Pensano che sia Veltroni l’uomo dei miracoli, l’unico capace di salvare il centrosinistra».
Se è vero quel che mi urlava Fassino, è stata una scelta sfortunata, Diventato segretario del Pd, Veltroni ha incassato soltanto sconfitte. La caduta del governo Prodi. La vittoria di Berlusconi nel volo dell’aprile 2008. Idem nel voto per Roma. Idem nel voto in Abruzzo. Lunedì scorso in Sardegna. Un disastro dopo l’altro.
Alla fine, Veltroni non ha salvato neppure se stesso. E ha deciso di dimettersi. In un paese dove le dimissioni sono una merce rara, voglio rendergli onore per questa scelta. E quando l’ho visto a piazza di Pietra, felice come una Pasqua, l’ho capito. Però mi sono fatto una domanda.
Valeva la pena di aspettare tutti questi anni per fuggire? Walter poteva deciderlo ben prima. Non sarebbe passato alla storia come un etemo sconfitto. Anni fa l’avevo definito un Perdente di successo. Oggi il successo è scomparso e rimane soltanto il perdente. Pessimo finale per un signore che ha soltanto 53 anni. Un ragazzo, rispetto al sempiterno Berlusca.