Gabriele Beccaria, la Stampa 26/02/2009, 26 febbraio 2009
IL RITORNO DI GILGAMESH
Che direbbe Gilgamesh? I primi ospiti saranno scolaresche obbedienti, poi gruppi selezionati di burocrati e, finalmente, se vorranno pagare il biglietto d’ingresso, iracheni a caccia di distrazioni culturali. «E i turisti? Ci speriamo», sospira il direttore Amir Edin.
Surreale, con i blindati all’ingresso e l’odore delle stanze appena ridipinte, il Museo di Baghdad riapre: lunedì c’era mezzo governo, guidato dal premier Nuri al-Maliki, a celebrare l’incerta rinascita di un simbolo dell’infinita catastrofe irachena. Sei anni dopo il famoso saccheggio, consumato davanti alle telecamere e alla svogliatezza dei marines, questa è la volta buona. Ma lo è davvero?
Già nel 2003 l’allora governatore americano del Paese, Paul Bremer III, si fece fotografare mentre esaminava alcune teche aggiustate alla meglio e nel 2007 fu consentito l’ingresso fugace a un gruppo di giornalisti e politici. Due eventi da propaganda, nel tentativo di deviare l’attenzione dai kamikaze e Al-Qaeda. Ora, però, l’impegno è evidente, com’è stato confermato ieri a Roma dai ministri degli Esteri Franco Frattini e dei Beni Culturali Sandro Bondi. Dietro ci sono gli euro dell’Italia - oltre 1 milione - e i dollari Usa, che hanno permesso l’inizio di un restauro che si annuncia lungo e difficile (una ricostruzione virtuale è prevista sul sito del Cnr: www.cnr.it).
Mentre lo stato maggiore iracheno si muoveva tra le tavolette cuneiformi e i bassorilievi strappati dal Palazzo del re Sargon a Khorsabad, il «New York Times» raccoglieva indiscrezioni imbarazzanti. Se il lavoro fatto finora è notevole, il fragile governo di Al-Maliki non smette di litigare nemmeno sul destino del Museo. Da una parte c’è il primo ministro, che ha voluto l’inaugurazione a ogni costo, anche se saranno visibili appena otto sale su 26, e nonostante standard di sicurezza tutt’altro che impermeabili. Dall’altra c’è il ministro della Cultura, Kathan Abbas al-Jabouri, secondo il quale si è lontani dal rispetto degli standard internazionali, con tante collezioni ancora in disordine. Irritato, ai media americani ha detto: «Aprire è un rischio. Se lo si fa, è per ragioni politiche».
«Vogliamo che questa istituzione sia un esempio per il mondo», ha ribattuto un premier a cui l’enfasi non fa difetto, facendosi fotografare accanto ad Aya, la dea assira dell’acqua, e poi in un trafelato tour tra leoni giganteschi e gioielli minuscoli. La scenografia - è evidente - era fuori dal comune.
I reperti del Museo sono le testimonianze delle prime civiltà e le emanazioni di luoghi che fanno battere il cuore anche a chi non va pazzo per l’archeologia, come Babilonia e Ur, Ninive e Nimrud e, naturalmente, la stessa Baghdad delle Mille e una Notte. Almeno 5 mila anni vissuti in un kolossal di città, zigguratt, fortezze, archivi, monarchi e sacerdoti, dall’occhio di Ishtar fino ad Allah. I conteggi rivelano che, al di là dell’ingresso kitsch in stile simil-babilonese, ci sono 5500 pezzi (di valore inestimabile, come si dice in casi simili) e il numero sa di evento miracoloso.
Altre statistiche rivelano che 15 mila oggetti scomparvero nei furti del 2003, alimentando un’industria che per l’Iraq è diventata la terza dopo il commercio della droga e quello delle armi. Solo un quarto del tesoro è tornato indietro, identificato da squadre di 007, recuperato spesso con la forza e a volte restituito dopo gli appelli gridati nelle moschee. E questa opera - giura il governo iracheno - prosegue, con l’aiuto degli alleati occidentali, che sanno di avere la coscienza sporca. Parte di quegli oggetti resta nascosto nelle collezioni di ricchi europei e americani e di qualche soldato a stelle e strisce, che fece scivolare nello zaino un souvenir di troppo.
Succede, disse l’allora capo del Pentagono, Donlad Rumsfeld: «I popoli liberi sono anche liberi di fare errori e commettere crimini». Alla faccia di Gilgamesh.