Alessandro Barbero, Il sole 24 ore 22/2/2009, 22 febbraio 2009
LA PENISOLA DEGLI SBARCHI
Quasi quindici secoli fa, imbarcazioni cariche di disperati salpavano dal Nordafrica, dal Medio Oriente, dai Balcani, e attraversavano il Mediterraneo alla ricerca di una nuova vita in Italia. Sbarcavano in Sicilia e in Calabria, accolti dalle autorità che li sfamavano e cercavano di organizzare la loro sistemazione sul posto, oppure li facevano affluire più a nord, verso Roma. Non erano, come oggi, i dannati della terra in fuga dalla miseria: erano i profughi dall’immenso sfacelo dell’impero romano, in fuga davanti ai berberi che devastavano l’entroterra libico, agli eserciti persiani che cercavano di conquistare lo sbocco al mare in Siria, ai biondi vandali che dalle steppe ucraine si erano spinti fino all’Africa, alle primitive tribù slave che tracimavano nella penisola balcanica, e infine alla più travolgente e duratura di tutte le invasioni, quella degli arabi infiammati dalla predicazione del Profeta.
All’epoca non erano i poveri a fuggire: quelli restavano sul posto, imparavano a convivere con i nuovi padroni e col tempo ne assumevano l’identità. Fuggivano vescovi e generali, latifondisti e senatori, chierici e monaci, certi che l’impero avrebbe saputo ricollocarli e far uso del loro capitale umano. Per sopravvivere dopo aver attraversato il mare non dovevano imparare le regole di una cultura ignota: tutti parlavano latino o greco e si sarebbero trovati a casa loro in un’Italia ancora cosmopolita, in una Roma ricca di comunità greche, copte, siriane e armene e dove più d’uno di quei profughi orientali sarebbe diventato papa.
Un orizzonte ben diverso rispetto a quei profughi d’oggi che si usa etichettare come i nuovi schiavi: per loro, forse, l’analogia più immediata è quella con gli schiavi veri, che per lunghi secoli il Mediterraneo ha riversato nei porti d’Italia. Schiavi dell’Impero romano, provenienti dalla Grecia, dall’Asia Minore, dalla Siria, importati via mare per faticare nelle miniere e nei latifondi padronali, riconoscibili dai loro nomi greci in mezzo alla popolazione latina della Penisola. Noi conosciamo i più fortunati, quelli che i padroni, apprezzando la loro intraprendenza, trasformavano in liberti e avviavano agli affari. Innumerevoli epigrafi ci parlano del cammino che poteva compiere uno schiavo orientale diventato imprenditore sotto la protezione dell’ex-padrone. Nella società delle città italiane i liberti diventavano uomini rispettabili, membri di quei collegi sacerdotali che erano un po’ l’equivalente del Rotary: ma si portavano dietro per sempre il vecchio nome greco, aggiunto come cognomen al nuovo nome da cittadino romano. Basta scorrere le iscrizioni ritrovate, ad esempio, in Piemonte per riconoscerli dappertutto: Tito Cordio Menelao, Quinto Ottavio Eraclide, Marco Attilio Eros...
Ma non è solo nell’Antichità che il mare ha riversato schiavi in Italia. Pochi sanno che nel basso Medioevo e nel Rinascimento i mercanti di Pisa, di Genova e di Venezia, padroni dell’economia europea, forti d’una rete di società commerciali con filiali in tutto il Vicino Oriente e fino al Mar Nero, importavano sistematicamente schiave nella Penisola. Non era più un prodotto di massa, ma una merce di lusso; la tratta non serviva per fornire forza-lavoro a campagne già sovrappopolate, ma per il lavoro domestico nelle case dei ricchi, il che spiega come mai si trattasse quasi soltanto di donne. Erano turche, tartare, more: comunque "pagane", e perciò legalmente riducibili in schiavitù, anche se poi sotto queste etnicità generiche passavano la dogana anche le russe, le greche o le caucasiche. Figure silenziose, le ritroviamo nei palazzi dei principi e nelle case dei mercanti, indicate tranquillamente con la loro condizione di schiave negli atti d’acquisto, nei testamenti o nella corrispondenza: come in quella lettera di Onorato Caetani, comandante della fanteria imbarcata sulle galere pontificie a Lepanto, che nel comunicare alla madre la vittoria promette di portarle in regalo «le più belle schiave turche che si possono vedere».
Ma non tutti i forestieri che sbarcavano sulle spiagge italiane provenienti dal Mezzogiorno o dal Levante erano profughi o schiavi. Per molto tempo gli uomini del mare sono giunti anche con le armi in pugno, spargendo il terrore. Era così, in fondo, già al tempo degli antichi greci. Nei libri di storia, le ondate di colonizzazione che hanno creato la Magna Grecia sono sempre considerate dal punto di vista di quegli avventurosi navigatori, portatori di una grande civiltà. Bisognerebbe provare a guardarle con gli occhi delle popolazioni locali, più arretrate e meno armate, che vedevano comparire le triremi all’orizzonte, e poi sbarcare quegli uomini ingegnosi e spietati, col loro nuovo modo di combattere in schiere serrate di opliti in cui Victor Hanson vede nascere l’«arte occidentale della guerra», e con i segreti tecnologici della scrittura e della moneta, che tutte le popolazioni del Mediterraneo furono costrette a imitare da loro per non essere divorate.
In tempi più vicini a noi, a partire dal Rinascimento, sono le galeotte dei corsari barbareschi a portare il terrore dal mare, intercettando i battelli da carico e le barche da pesca anche in vista di Gaeta o di Ancona, sbarcando a saccheggiare i villaggi e portare via schiavi perfino al lido di Ostia. Un incubo durato fino al primo Ottocento: quando Rossini si permette di mettere in burla quei nemici terribili nell’Italiana in Algeri, lo spavento che essi provocavano è ancora un ricordo vicino. Il disagio e le proteste suscitati dagli sbarchi odierni fra le popolazioni più esposte esprimono forse anche la memoria delle angosce che i loro antenati hanno vissuto per secoli, quando l’apparizione di una vela sconosciuta provocava il terrore, e i villaggi si ritraevano sulle alture perché abitare alla marina era troppo pericoloso.
E tuttavia, perfino in quell’epoca in cui davvero il Mediterraneo era una frontiera incandescente, basta scendere sotto la superficie delle cose per scoprire l’impossibilità di suddividere nettamente gli uomini in due campi contrapposti. Nel 1581 Diego de Haedo nella sua descrizione di Algeri elenca i rais dei 35 vascelli corsari basati nella metropoli maghrebina: ben 25 sono cristiani rinnegati, e fra loro sei genovesi, due veneziani, un calabrese, un siciliano, un napoletano, un corso. Rinnegati: schiavi catturati in mare che si sono fatti musulmani per sfuggire alla catena, e che poi hanno fatto carriera, come la facevano i liberti nell’Italia romana, diventando padroni di battello e talvolta molto di più. Come quel Dionigi, calabrese, e quel Cigala, genovese, che fra Cinque e Seicento comandarono uno dopo l’altro la flotta imperiale ottomana; e il secondo lo conosciamo tutti, perché è il protagonista di una canzone di Fabrizio de André, Sinan Kapudan Pascià.
Storie terribili le loro, di violenza e di sopraffazione; ma oggi gli storici turchi ci chiedono come mai uomini di così grande talento, se fossero rimasti a casa loro, erano condannati a rimanere per sempre marinai o pescatori. Altre società mediterranee, allora, erano più aperte di quella europea, irrigidita dal mito della nobiltà di sangue. Oggi le parti si sono invertite, e i disperati che sbarcano sulle nostre spiagge sono i nuovi rinnegati, pronti a buttare a mare il passato per vivere una nuova vita in un’Europa dove, nel loro immaginario, tutte le possibilità sono aperte. Proprio per questo chiamarli disperati è una contraddizione, perché a spingerli a sfidare il mare è proprio la speranza. Ma se le parti si siano ribaltate fino in fondo lo sapranno soltanto gli storici del futuro: davanti a loro dovremo rendere conto di quanti fra gli sbarcati di Lampedusa saranno diventati ammiragli della flotta imperiale. Domani, lunedì 23 febbraio, alle ore 11
al Circolo del ministero degli Affari Esteri
(Lungotevere dell’Acqua Acetosa 42, Roma) verrà presentato il X volume della «Storia d’Europa e del Mediterraneo» diretta da Alessandro Barbero (Salerno Editrice). Interverranno, insieme al curatore e a Luciano Canfora, il sottosegretario Vincenzo Scotti, Giulio Andreotti e Lamberto Dini. Coordinerà l’incontro
Paolo Mieli.