Gianluca Paolucci, 25/02/2009, 25 febbraio 2009
LO TSUNAMI ARRIVERA’ DALL’EST?
C’è davvero un rischio di collasso dei Paesi dell’Est?
Gli allarmi in questo senso si fanno sempre più frequenti. L’ultimo in ordine di tempo è arrivato ieri da Standard and Poor’s, che ha sottolineato la «vulnerabilità» dei Paesi dell’Europa orientale in questa fase economica. Per il Financial Times, questa crisi «se non sarà gestita bene, potrebbe far crollare l’eurozona». Va sottolineato comunque che secondo le stime più recenti la maggior parte di questi Paesi continuerà a crescere anche nel 2009, a differenza della quasi totalità delle economie occidentali.
Da cosa è stata causata questa «vulnerabilità»?
Da una molteplicità di fattori. Alla base, c’è anche la forsennata rincorsa da parte dei governi dell’area al livello di benessere economico dei Paesi dell’Europa occidentale. Basti dire, per fare un esempio, che il governo romeno prometteva ancora in settembre «il raggiungimento di un livello di vita occidentale» per i suoi cittadini entro dieci anni. Una rincorsa a tappe forzate che ha prodotto, tra l’altro, un elevato indebitamento delle famiglie in quasi tutta l’area. In alcuni casi, come l’Ungheria, il debito delle famiglie è prevalentemente in valuta estera. I cittadini ungheresi hanno sottoscritto mutui in franchi svizzeri, con il risultato che i benefici dei bassi tassi d’interesse sono stati annullati dall’indebolimento della valuta locale. Un tema questo che noi italiani conosciamo bene: durante la crisi valutaria del 1992 la massa di debito delle famiglie italiane era in una parte consistente in Ecu.
La presenza delle banche occidentali è un aiuto?
No, anzi. I sistemi finanziari sono in mano, in alcuni casi quasi totalmente, a banche straniere (in genere europee occidentali) e all’aumento dei rischi tendono a dare meno credito, innescando una spirale di mancanza di risorse per investimenti e dunque minore crescita. Ad oggi, secondo alcune stime, la quota di debito di Paesi dell’Europa orientale in mano a banche occidentali è di 1750 miliardi di dollari. Una massa enorme, per la quale «chiudere il rubinetto» (fermare il rifinanziamento, la rinegoziazione di prestiti eccetera) significherebbe il collasso.
Perché l’allarme esplode soltanto adesso?
Perché adesso i nodi vengono al pettine. Cinque mesi fa, alla fine di settembre, la Commissione europea ha rivisto le stime di crescita per l’Unione europea. E mentre a Occidente, nella Vecchia Europa, si parlava apertamente di recessione, nella «Nuova Europa», a Oriente, le aspettative erano di un incremento ulteriore della velocità della crescita. Poco più di un mese dopo, tra ottobre e novembre, il Fondo monetario internazionale è dovuto intervenire con il primo prestito straordinario nella regione, in favore dell’Ungheria. Un’indubbia sottovalutazione del problema, dovuta in parte ad una certa «leggerezza» dei funzionari di Bruxelles nello stimare gli effetti della crisi - alla fine di settembre era già crollata Lehman Brothers - e in parte all’opinione, errata, che le economie e i sistemi finanziari di quei Paesi fossero più arretrati e meno interconnessi con il resto del mondo e dunque più al riparo dagli effetti negativi della globalizzazione. I fatti successivi hanno dimostrato che le economie erano sì più arretrate ma ugualmente interconnesse. Il forte indebitamento delle famiglie è stato finanziato con asset rivelatisi poi tossici, ad esempio.
Quali sono i Paesi più a rischio di collasso?
Secondo Jean-Michel Six, capo economista di Standard and Poor’s per l’Europa, i Paesi della regione vanno divisi in due gruppi. Repubblica Ceca, Polonia e Slovacchia sono più al riparo dai rischi, grazie prevalentemente alla domanda interna che viene vista comunque stabile malgrado il rallentamento dell’export. Per la Slovacchia, già nell’area euro, la stabilità monetaria viene vista come un fattore di sicurezza. Paesi baltici, Bulgaria, Ungheria e Romania vengono invece visti più deboli, per la forte dipendenza dall’estero per finanziare il debito pubblico e - in alcuni Paesi - una domanda interna ancora fiacca e non in grado di compensare i cali dell’export.
Si è parlato di «effetto domino», che cosa significa?
Il timore maggiore in questa fase è proprio questo: il default di un Paese della regione che ne inneschi altri a seguire fino ad esiti imprevedibili. L’Economist ha parlato di «Argentina sul Danubio», per i rischi di un default sull’intera regione, come accadde al Paese sudamericano tra il 2001 e il 2002. Per questa ragione, la situazione dell’Ucraina viene monitorata attentamente, oltre che dal Fondo monetario, anche nelle cancellerie di quei Paesi come Germania o Austria che ne pagherebbero potenzialmente conseguenze più dirette.
I pericoli arrivano anche da Paesi non nella Ue?
Sì. il caso dell’Ucraina, che soffre di una forte instabilità politica e di una complessa relazione con l’ingombrante vicino russo. Il sistema finanziario del Paese è in mano quasi completamente alle banche occidentali esposte, tra le quali le italiane Unicredit e Intesa Sanpaolo.
Quali rischi concreti corrono le banche europee?
Gli istituti maggiormente esposti nella regione sono quelli austriaci, con Raiffeisen e Erste Bank. Nella classifica, ben piazzati anche gli italiani con Unicredit e, in misura minore, Intesa Sanpaolo. Secondo Roberto Castelli, docente di Economia degli intermediari finanziari all’Università Bocconi, entrambi gli istituti sono in grado di sostenere il «default» di un Paese della regione. Ma uno scenario di «domino», di una serie di default successivi, non sarebbe sostenibile da nessuno.
Cosa possono fare i governi? E l’Unione europea?
I singoli governi, poco o niente. I trattati della Ue vietano espressamente interventi di sostegno di singoli Stati a favore di Paesi membri dell’Unione. Il governo di Angela Merkel, secondo indiscrezioni circolate la settimana scorsa, avrebbe anche esaminato la possibilità di un intervento autonomo a favore dell’Est Europa. Alcuni economisti si spingono a sostenere la necessità di un «piano Obama» per l’area. Un massiccio intervento finanziario della Ue per sostenere investimenti e domanda in quei Paesi. Di certo un intervento, anche se non così radicale, sembra oggi necessario.
L’adozione dell’euro può
risolvere il problema?
Le analisi divergono. Per la Slovacchia, già nell’area euro, la moneta unica viene vista come una potente ancora. Ma alcuni osservatori sottolineano che la ventilata accelerazione per l’ingresso nell’euro di altri Paesi - come la Repubblica Ceca o la Polonia - potrebbe non risolvere il problema e anzi «importare» inflazione dentro l’Eurozona.