Pierangelo Sapegno, La Stampa 25/02/2009, 25 febbraio 2009
Alberto Stasi, una nuova ragazza per affrontare il processo PIERANGELO SAPEGNO PER LA STAMPA Arriva di nascosto, ma in fondo Alberto Stasi è sempre passato così in questa storia, sbucando da un luogo inatteso o apparendo all’improvviso, come questa mattina alle 9 e 20, dietro ai vetri scuri di una Audi nera, seduto accanto a uno dei suoi legali, l’avvocato Giuseppe Colli, i capelli tagliati un po’ più corti del solito e gli occhi un po’ più lontani di sempre
Alberto Stasi, una nuova ragazza per affrontare il processo PIERANGELO SAPEGNO PER LA STAMPA Arriva di nascosto, ma in fondo Alberto Stasi è sempre passato così in questa storia, sbucando da un luogo inatteso o apparendo all’improvviso, come questa mattina alle 9 e 20, dietro ai vetri scuri di una Audi nera, seduto accanto a uno dei suoi legali, l’avvocato Giuseppe Colli, i capelli tagliati un po’ più corti del solito e gli occhi un po’ più lontani di sempre. Quando cammina per qualche secondo, appena rapito dall’obbiettivo di una telecamera mentre si infila in un corridoio del tribunale di Vigevano, è freddo e altero, lo sguardo diritto davanti a sé, tutto molto in ordine, con il suo giubbotto col cappuccio bordato di pelo e la sciarpa al collo, e così estraneo a questa ressa mediocre, fatta dei nostri giorni e della nostra normalità meschina, da sembrare un alieno, non l’imputato di questo processo. E chissà perché viene in mente il giorno in cui cominciò questa vicenda, il 13 agosto del 2007, la sua telefonata al 118, lo stesso tono di voce dei suoi occhi, così algido, così lontano, quando l’operatrice gli chiese «ma cosa succede?», e lui rispose come se parlasse di un altro mondo: «Eh credo che abbiano ucciso una persona, ma non sono sicuro, forse». Lei cosa vede? E lui rispose ancora senza un fremito, «Sangue dappertutto e lei sdraiata per terra», senza un cedimento qualsiasi, senza chiamarla mai per nome. Ma è una sua parente?, gli chiese alla fine l’operatrice. «No, la mia fidanzata». Se il loro amore era finito così, il processo che lo dovrà raccontare comincia con la stessa dolente lontananza: nessuna stretta di mano tra la famiglia Poggi - mamma Rita, papà Giuseppe e Marco, il fratello di Chiara -, e l’ex fidanzato, nessuno sguardo, ma neanche toni accesi e nessuna parola, niente di niente. Rita Poggi, avvicinata dai cronisti prima di entrare, dice che quando lo vedrà, Alberto, non sa se riuscirà a essere indifferente: «Adesso non saprei nemmeno dirle che cosa proverò guardando in faccia quel ragazzo, se fastidio o rabbia, o cos’altro». Ma poi alla fine racconta che è stata dura, che ha dovuto farlo per Chiara: «Io non avrei voluto incontrare gli occhi di Alberto in aula. Però, mi rendo conto che è uno dei passi che bisogna fare per arrivare alla verità, e questa è l’unica cosa che ci interessa». Lo spiega parlando dal citofono alla folla dei giornalisti assiepati sulla strada, nella stessa casa di via Pascoli dove qualcuno ha ucciso sua figlia e dove tutto questo è cominciato, la casa con il muretto scavalcato da Alberto, l’erba bassa e il garage dove hanno cercato l’arma del delitto, con il pavimento riempito di sangue e le scale che scendono alla tavernetta, dopo l’ingresso, lì dov’era finito il corpo di Chiara. Solo che restare qui, dice mamma Rita, «è un po’ come continuare la vita di mia figlia, è la nostra casa, ci sono tutte le sue cose, ognuna al suo posto. Perché dovremmo andarcene via noi? Abbiamo ritoccato un po’ le camere, dentro abbiamo cambiato l’immagine. Solo la stanza di Chiara è rimasta com’era prima». Anche in questo, il processo consegna due mondi così distanti che riesce difficile capire come abbiano potuto essere invece così vicini, nei primi giorni dopo il delitto, quando mamma Rita stringeva Alberto al suo cuore davanti ai fotografi. Silenzi lontani. L’ultima domenica i Poggi l’hanno passata chiusi nella villetta di via Pascoli da soli. La domenica dopo San Valentino, Alberto è andato con la sua famiglia a Tromello, un paese qui vicino, a casa di Serena Spalla e dei suoi familiari, portando bottiglie di vino e pietanze nei sacchetti di plastica. Oggi, Alberto si sta rifacendo una vita, anche se sostiene che la sua «non è una storia d’amore. Ci parlo bene insieme». Serena ha 24 anni, una laurea in Scienze delle comunicazioni a Pavia e una Volkswagen Polo. Lavora alla «A-tono» di Milano, una società specializzata in nuove tecnologie, nella sede di corso Buenos Aires. Alta, occhi scuri, gambe lunghe e ricci neri lungo le spalle. A Tromello la descrivono «quasi sempre in jeans e scarpe da tennis». Chi la conosce parla di «una ragazza intelligente, semplice e sincera, di grande vitalità e simpatia». Si frequentano da un po’ di tempo: nella villetta di fronte a quella di Serena, abita Chiara Venegoni, figlia dell’ex sindaco, fotografata pochi mesi dopo il delitto a Milano, sui Navigli, mentre camminava sottobraccio ad Alberto dopo una cena in compagnia. Nelle intercettazioni telefoniche, lui la chiama «Sere», le lascia dei messaggini ogni tanto, le dà nomignoli affettuosi e si preoccupa della sua influenza. A San Valentino erano ancora andati insieme al concerto dei Negrita, al Palasharp di Milano. La mamma di Serena ha detto che gli Stasi sono amici di famiglia e che li accolgono volentieri a casa loro: «Hanno bisogno di pace». Tutto qui. Ma adesso che comincia il processo, la pace e il silenzio e la verità sono solo entità che si confondono, o che restano lontani come gli sguardi di Alberto. Ci sarà qualcosa che li unisce a una morte?