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 2009  febbraio 26 Giovedì calendario

Il presidente venezuelano ha vinto la sua battaglia. Il sì dei suoi connazionali nel referendum per la riforma della costituzione gli permetterà di candidarsi alla presidenza della repubblica dopo la fine del suo secondo mandato nel 2013 e, ”con l’aiuto di Dio e del popolo”, dopo quella del terzo, nel 2019

Il presidente venezuelano ha vinto la sua battaglia. Il sì dei suoi connazionali nel referendum per la riforma della costituzione gli permetterà di candidarsi alla presidenza della repubblica dopo la fine del suo secondo mandato nel 2013 e, ”con l’aiuto di Dio e del popolo”, dopo quella del terzo, nel 2019. Ha l’intenzione di morire nel palazzo presidenziale di Miraflores e non è escluso che vi riesca. I critici del populismo commenteranno, con ragione, che le elezioni possono segnare la fine delle democrazie e che il voto popolare può essere il piedistallo su cui i dittatori costruiscono i loro regimi. Ma nel successo di Hugo Chávez vi è un paradosso che rende la vicenda venezuelana particolarmente interessante. Poco più di un anno fa, nel dicembre 2007, Chávez cercò di raggiungere lo stesso risultato con una riforma che avrebbe modificato circa 60 articoli della costituzione. Nei mesi precedenti aveva toccato il punto più alto della sua popolarità internazionale. Era amico di Fidel Castro, di Vladimir Putin, di Mahmoud Ahmadinejad e, anche se con diverse gradazioni di affetto, di molti leader latinoamericani, da Evo Morales in Bolivia a Inácio Lula da Silva in Brasile, da Néstor Kirchner in Argentina a Tabaré Vazquez in Uruguay. Alla base del suo successo vi era l’uso generoso che il presidente venezuelano faceva della sua straordinaria rendita petrolifera (nel dicembre del 2007 il barile costava 90 dollari). Perdette per un soffio, incassò la sconfitta e annunciò che ci avrebbe riprovato non appena possibile. Vi è riuscito negli scorsi giorni in una situazione economica che gli è sfavorevole. molto più difficile, con il petrolio a 40 dollari, sovvenzionare Cuba o aiutare i paesi amici a saldare i debiti contratti con il Fondo monetario internazionale. Molti pensarono che la sua fortuna fosse strettamente collegata al prezzo del petrolio e che il crollo dei mercati avrebbe privato Chávez dell’arma principale. Le cose sono andate diversamente. Il presidente ha semplificato il referendum, eliminando le riforme che presentavano per lui un interesse minore, e ha concentrato l’attenzione degli elettori sulla durata del mandato. Benché il quesito concernesse anche la durata di altri pubblici mandati, il referendum ha assunto così un carattere ancora più personale. Il no, se la maggioranza avesse respinto il progetto di riforma, sarebbe stato inequivocabilmente un no al presidente.  molto probabile che Chávez abbia vinto a causa della crisi. A torto o a ragione, il 54 per cento dei venezuelani ha deciso che il ”socialismo bolivariano di Chávez” li avrebbe garantiti, negli anni delle vacche magre, meglio dei leader democratici, più attenti alle regole della ortodossia economica. possibile che abbiano commesso un errore. Se il prezzo del petrolio resterà stabile, la politica sociale del presidente avrà per effetto l’aumento del debito, del deficit, dell’inflazione (oggi a poco meno del 30 per cento) e, in prospettiva, la bancarotta. Chávez ha conquistato il diritto di essere rieletto, ma i suoi elettori di oggi potrebbero scendere in piazza domani per chiedergli conto delle sue stravaganze economiche. Molto potrebbe cambiare, tuttavia, anche sul piano economico se Chávez rinunciasse alle sue filippiche antiamericane. Il dipartimento di Stato, in questi giorni, gli ha lanciato un messaggio elogiando lo «spirito civico» di questa tornata elettorale e auspicando che gli eletti si impegnino a governare democraticamente. Il tono è un po’ professorale, ma molto diverso da quello con cui la presidenza Bush commentava le vicende venezuelane. Sergio Romano