Sergio Fabbrini, il Sole 24 Ore 21/02/2009, 21 febbraio 2009
VIZIO OLIGARCHICO E PAURA DEL PRINCIPE
di Sergio Fabbrini
C’è un tratto inequivocabile della cultura politica del centro-sinistra italiano: e cioè la difficoltà ad accettare il principio della leadership individuale. Le dimissioni di Walter Veltroni dalla direzione del Pd costituiscono l’ultimo esempio di una vicenda politica contrassegnata dalla messa in discussione costante e sistematica del leader politico. Ne sa qualcosa anche Romano Prodi che ha dovuto fronteggiare, nelle sue due esperienze di primo ministro, una guerriglia ininterrotta nei confronti della sua direzione del governo. Il centro-sinistra italiano è intimamente oligarchico. Esso continua ad essere organizzato intorno a fazioni e gruppi rappresentati da leader in permanente competizione reciproca. Ognuno di loro ritiene di essere il monopolista di pezzi di identità politica, l’espressione di correnti culturali fondamentali, il portavoce di interessi organizzati, il garante di insuperabili tradizioni politiche. In realtà si tratta di divisioni all’interno del ceto politico, piuttosto che all’interno dell’elettorato, del centro-sinistra. Tuttavia, si tratta di divisioni che si sono venute istituzionalizzando grazie al controllo, da parte di quei leader, di risorse pubbliche, finanziarie, simboliche ed organizzative. Il risultato è che tutti vogliono dirigere e nessuno riesce a farlo.
La natura oligarchica del centro-sinistra ha radici culturali e storiche. Sia la tradizione democristiana che quella comunista hanno guardato sempre con sospetto alle leadership forti, del partito e del governo. Sia la Dc che il Pci hanno avuto dei leader autorevoli, ma ciò è avvenuto nelle fasi di crisi politica o di transizione da un equilibrio politico all’altro. Sebbene entrambi i partiti avessero come riferimento entità politiche a direzione alquanto monocratica (come la Chiesa cattolica e l’Unione Sovietica), la loro visione politica ha finito per evolvere in direzione decisamente oligarchica. Tale visione ha trovato riscontro nell’organizzazione del sistema istituzionale da essi promossa. L’Italia della Prima Repubblica è stata connotata da una debolezza strutturale del governo in quanto istituzione. E ancora di più del suo capo, il cui ruolo è stato quello di un "presidente del consiglio" e non già di un "primo ministro". Occorrerà attendere il 1988 per vedere approvata la prima riforma organizzativa del governo, con il corollario del rafforzamento del ruolo del suo capo. Tuttavia, se con quella riforma il ceto politico di provenienza democristiana e comunista ha dovuto accettare l’interpretazione primo-ministeriale del ruolo di capo del governo, nondimeno ha fatto di tutto perché egli risultasse un primus inter pares (e non super pares come nelle altre maggiori democrazie parlamentari europee).
Tale visione negativa del leader fu un’eredità dell’esperienza fascista. La "paura del tiranno", però, si conciliò perfettamente con l’esigenza di dare vita e quindi istituzionalizzare un modello di democrazia per un paese diviso ideologicamente. Cioè per un paese in cui i partiti maggiori non si fidavano reciprocamente l’uno dell’altro. In questo contesto, un governo debole con un presidente del consiglio ancora più debole costituiva una garanzia per ognuno di loro. Non può stupire che per più di 40 anni, i governi siano rimasti mediamente in carica 11,3 mesi e che i presidenti del consiglio venissero ancora più facilmente sostituiti. L’Italia ha dato così vita ad un sistema parlamentare policentrico, funzionante secondo una logica assembleare. Sistemi di questo tipo si possono giustificare solamente in situazioni in cui in gioco è la sopravvivenza della democrazia. Quando non è così, le loro conseguenze sono drammatiche, in quanto necessariamente inefficienti sul piano decisionale e irresponsabili sul piano politico. Come è avvenuto in Italia.
Il ceto politico del centro-sinistra italiano è ancora prigioniero di quella vicenda storica. Teme i leader (di partito o di governo) che possano prendere decisioni, invece di preoccuparsi di creare le condizioni affinché essi rispondano per gli esiti di queste ultime. Non si rende conto che un paese non più diviso ideologicamente ha l’esigenza di un sistema politico che sia in grado di prendere decisioni. La superiorità competitiva del centro-destra è dovuta anche alla sua capacità di rispondere a quell’esigenza, seppure ciò venga fatto attraverso una personalizzazione esasperata della leadership politica. Se il centro-sinistra non riconoscerà quella esigenza, è probabile che rimarrà a lungo ai margini della competizione politica. Per fare questo ha bisogno di una nuova cultura politica che riconosca il ruolo necessario del leader, senza trascurare la necessità del suo controllo (come talora fa il centro-destra). Forza e controllo sono le due facce della leadership politica.