Sergio Romano, Corriere della Sera 22/02/2009, 22 febbraio 2009
LETTERA A SERGIO ROMANO
Ho una figlia che sta terminando il liceo e ha espresso il desiderio di intraprendere la carriera diplomatica. Pur immaginando che potrebbe essere una scelta non definitiva, vorrei comunque saperne di più per vedere se sono in grado di aiutarla. Mi preoccupa soprattutto la difficoltà e il poco tempo che ho a disposizione per reperire quelle informazioni necessarie (ma possibilmente affidabili) per poter decidere con una certa tranquillità sulla fattibilità della scelta, considerati, prima di tutto, il carattere e il talento della figlia e poi le difficoltà da superare (la ragazza ha, però, da tempo dimostrato una certa tenacia nel raggiungere le sue mete).
Dante Buoso
dante@studiobuoso.it
Caro Buoso,
La tenacia le sarà utile perché la carriera diplomatica è ancora, da noi, un club prevalentemente maschile. Il ghiaccio fu rotto dai sovietici. La prima donna alla testa di una rappresentanza diplomatica fu Aleksandra Kollontaj, ambasciatore dell’Urss in Messico nel 1923 e, più tardi, in Norvegia e Svezia. Ma fu scelta, paradossalmente, perché rappresentava, come il ministro degli Esteri Cicerin, una felice combinazione tra origini nobiliari o alto-borghesi e ideali rivoluzionari. Era figlia di un generale, aveva sfidato al momento del matrimonio la volontà della famiglia, aveva fatto propaganda sovversiva e conosciuto l’ospitalità delle prigioni zariste, aveva militato nelle file dei menscevichi (la fazione minoritaria del partito social-democratico russo), ma si era convertita al bolscevismo nel momento cruciale della lotta conclusiva. Ma il caso Kollontaj non impedì che la carriera diplomatica dell’Urss restasse fondamentalmente maschile e che alle donne fossero assegnati compiti amministrativi.
La situazione non fu molto diversa in Gran Bretagna. Nel 1934 il rapporto di una speciale commissione sul servizio diplomatico e consolare discusse il problema e respinse a maggioranza l’ipotesi femminile. Le cose accennarono a cambiare durante la guerra quando un Libro bianco, presentato alla Camera dei Comuni dal ministro Anthony Eden, aprì uno spiraglio sostenendo che la carriera diplomatica dovesse rappresentare senza discriminazioni tutti gli aspetti della società britannica. Altri, negli ultimi mesi della guerra, sostennero che non sarebbe stato giusto escludere dai concorsi le giovani donne che avevano svolto importanti funzioni in varie branche dell’amministrazione durante il conflitto. Ma vi era ancora, come negli anni precedenti, chi sosteneva che le donne fossero meno obiettive, meno capaci di conservare un segreto, più emotive, più inclini a lasciarsi affascinare dal potere. Queste obiezioni vennero scartate e il reclutamento femminile cominciò nel 1946 quando una donna fu assegnata all’Ambasciata di Gran Bretagna negli Stati Uniti con le funzioni di Secondo segretario. Quando giunse a Washington, Monica Milne (era questo il suo nome) scoprì che al Dipartimento di Stato vi erano molte donne sin dall’inizio degli anni Venti. Di lì a poco (1949) una di esse sarebbe stata nominata ambasciatore in Danimarca.
Da noi il ministero degli Esteri ha fatto per altri vent’anni una battaglia di retroguardia. Credo che le ragioni fossero soprattutto psicologiche. All’origine della resistenza vi erano un inconfessato sentimento d’insicurezza maschile, il timore di non sapere trattare le donne con il necessario distacco professionale, il desiderio di non rinunciare al linguaggio casermesco della convivialità maschile. Nel dopoguerra la carriera diplomatica era ancora composta da nobili e da esponenti della buona borghesia indu-striale, professionale o mercantile. I più vecchi avevano partecipato alla Grande guerra, tutti avevano fatto il servizio militare, preferibilmente in Cavalleria. Era un mondo maschile che desiderava ardentemente di restare tale. Fu necessario, perché l’Italia si adeguasse, attendere una nuova generazione. Le prime donne entrarono in carriera nel 1964 e molte di esse da allora hanno diretto importanti missioni diplomatiche o servizi cruciali del ministero. Due di esse – Graziella Simbolotti e Iolanda Brunetti – hanno raggiunto il più alto grado della carriera nel 2005. Un’altra, Elisabetta Belloni, ha diretto molto bene l’Unità di crisi della Farnesina: un ufficio che in questi ultimi anni ha dovuto occuparsi di rapimenti, terremoti e tsunami, dall’Iraq alle Filippine, dall’Afghanistan all’Indonesia. Da un confronto con altri ministeri degli Esteri risulta che le donne in Italia rappresentano circa il 15% della diplomazia contro il 30/40% nelle maggiori democrazie. Una ragione di più, caro Buoso, perché sua figlia dia il suo contributo alla eliminazione di questo divario.