Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  febbraio 22 Domenica calendario

DARIO IL MAESTRO ZACCAGNINI E IL COMPAGNO BRATTI

Bisognerebbe chiederlo ad Alessandro Bratti, deputato del Pd che da ragazzo era a scuola con Franceschini, allo Scientifico Roiti di Ferrara, e siccome era comunista - e Dario democristiano - gli dava fuoco alla copia del ”Popolo”. Se Dario possa farcela, ecco, bisognerebbe chiederlo a Bratti, perché poi i due divennero amici e nel ”94 provarono a prendersi la città. Dario, nel frattempo, aveva incontrato il suo maestro: Benigno Zaccagnini.
Erano lontani i tempi - gli anni Cinquanta - in cui suo padre Giorgio prendeva la bicicletta e di nascosto dai comunisti, per evitar mazzate, andava in provincia ad attaccare i manifesti della Dc insieme con i preti. Dario era uno che negli anni Settanta (è nato nell’ottobre del 1958) circolava per Ferrara con la barbetta rossa e indosso l’eskimo (e il ”Popolo” in tasca, prima dell’attentato di Bratti), e insomma, era un Partito democratico ambulante. Si invaghì di Zaccagnini (’il fiore è di nuovo bianco”, disse Zac incantando i ragazzi), della sua idea che con i comunisti ci volesse concorrenza e confronto, del suo richiamo alla questione morale, proprio come Enrico Berlinguer.
E dunque, ormai cresciuto, nel ”94 Franceschini scansò con rabbia la corsa in solitaria del Partito popolare - e Silvio Berlusconi esordì alla vittoria - e con i Cristiano sociali imbarcò i Laburisti e i Verdi, e c’era anche Bratti, e provò la corsa a sindaco. Ora a Ferrara dicono che la sua parsimonia (in realtà sono meno eufemistici) gli precluse il trionfo: gli sarebbe bastato un milione di lire in più in manifesti e l’avrebbe spuntata. Ma, forse, gli è andata meglio così, ora che gli capita di applicare lo schema Bratti-Zaccagnini alla leadership del Pd. Perché c’era, e c’è, specialmente questa sterminata base diessina della Toscana e della sua Emilia che si vede tutto sfuggirgli dalle mani: il cattolico Matteo Renzi candidato a Firenze, Massimo Carlesi dell’Azione cattolica a Prato, un repubblicano a Forlì, il prodiano Flavio Delbono a Bologna. E ora un cattolico anche alla guida del partito.
Non saranno queste cose a impressionare Franceschini. Come scrisse Lucia Annunziata, ha una faccia da bravo gitante della domenica che piace alle mamme ma non alle figlie. E, come dicono a Ferrara, ha la capacità scientifica di stare in prima fila senza stare in primo piano. E cioè, per intenderci, è uno che ha sposato una bella e agiata figlia della sua terra, Silvia, figlia di medico, che gli ha dato due bimbe e ogni sera, cascasse il mondo, lo obbliga a portare il bastardino Dado a far bisogni in piazza Barberini, a Roma, dove abitano. Dunque l’uomo è temprato anche per ragioni familiari. La mamma Gardenia, per esempio, va in giro dicendo che Dado è il cane più brutto del mondo. Ed è una signora perbene, così perbene che quando il Carlino ha scritto che Dario era un secchione, e a scuola era sempre il primo della classe, telefonò infuriata in redazione - «quante stupidaggini scrivete!» - per precisare che allo scientifico si era diplomato col 36. Quanto al padre, deputato per una legislatura, è avvocato molto riverito, una specie di topo di biblioteca e, ora che gli anni pesano e camminare gli costa, s’è tramutato in un mago di Internet e naviga nel sito della biblioteca del Congresso americano. Senza dire del nonno fascista.
Adesso, spiegano gli amici, Franceschini sa che il plebiscito con cui è diventato segretario costituisce un trionfo ambiguo: lo hanno votato tutti, e tutti avranno qualcosa a pretendere. Lui, infatti, annuncia l’azzeramento del gruppo dirigente e lo ricostruirà col bilancino, coi bindiani, coi rutelliani, coi lettiani, coi veltroniani, specialmente coi dalemiani. «Non chiudo nessuna porta», dice, e cerca di superare le recenti tortuosità del partito immaginando il Pd in Europa con i socialisti, ma in un gruppo più ampio, e dicendo la sua - con qualche chiarezza - sul testamento biologico: nutrizione e alimentazione non sono accanimento terapeutico, ma si sospendano se il malato ne fece indubbia richiesta. Basterà? Ce la farà a cancellare tutte queste paure della base, queste acrimonie della nomenclatura, queste indecisioni nel dibattito quotidiano? Ce la farà a superare le Europee senza suicidarsi? Ce la farà, soprattutto, a non essere il servo sciocco dei pretendenti alla leadership?
Con il poco che sia ha disposizione per valutarlo, visto che il profilo politico - conciliare, don milianiano - e la carriera non incantano, si può intanto ricordare che «Nelle vene quell’acqua d’argento» è un romanzo di certo migliore di qualsiasi libro di Walter Veltroni, e infatti fu tradotto in Francia da un santuario della cultura come Gallimard e premiato con lo Chambery. Veltroni non lo ha mai confessato, ma invidiò il suo vice. Adesso, probabilmente, non lo invidia più.