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 2009  febbraio 22 Domenica calendario

ALESSANDRO BERGONZONI

Bergonzoni corre, stargli dietro è duro. Nella conversazione, come sul palco, ha lo scatto del centometrista, mezza domanda e lui è già via. Ma corre anche da maratoneta: in venticinque anni ha fatto una dozzina di spettacoli (con cento repliche all´anno), otto libri, due film. Scarse apparizioni in tv (una ventina in tutto, da Maurizio Costanzo), ma sempre più presente nei festival culturali, nelle librerie e nelle scuole. Poi la pratica della pittura, da sei anni, e la militanza nella "Casa dei risvegli", che si occupa delle persone in coma. E sempre con un ritmo bruciante, che divora linguaggi, percorsi, vita. Se dal palco fa molto ridere, da vicino fa soprattutto impressione: per come convoca le parole e le fa danzare nel suo circo di significati. Gli hanno appena dato il premio Ubu (come miglior attore, per lo spettacolo Nel) e in maggio la University Italian Society lo vuole a Oxford per festeggiarlo. C´è da chiedersi come faranno a tenerlo fermo per i due giorni previsti (il 20 e il 21), dal momento che è difficile bloccarlo su un solo argomento anche per due minuti. Alessandro, ma quand´è che hai cominciato a parlare per non smettere più?
«In fase prenatale, anche se il parlare c´entra poco, è la punta dell´iceberg. Il tema è il pensare, non il parlare. Tutti si fermano alla voce e alle associazioni verbali, ma la questione è quella del flusso interiore, che all´epoca io non riconoscevo. Un flusso mentale, filosofico, antropologico, che nasceva da sé».
Un dono? Una condanna? «La parola prescelto non mi piace, ma rende l´idea. Non amo il caso, credo più nel caos. Io faccio la danza del mentre: mentre penso una cosa ne parte un´altra, arriva la posta che mi manda un altro pensiero, apro la missiva e mentre la apro ne compongo un´altra ancora. Il linguaggio è il remo, la vela, la zattera: il vento che muove la vela è il pensiero. Lo so, di solito a pensare sono i filosofi, non i comici. Il comico deve parodiare e imitare, ma non pensare? Io invece ho una carta vetrata, quella della fantasia e dell´immaginazione. Che sono energie alternative, che mi muovono e mi possiedono. Recito sotto un effetto sciamanico, posseduto. Così ho iniziato a sentire questa sostanza stupefatta, e ho cercato qualcuno che la raccogliesse».
E lo trovasti? «Claudio Calabrò. Ai tempi del liceo scrivevo novelle, ne avevo letta una sul palco della mia scuola, Storia di una mano. Claudio, insieme a Luigi Conti, mi disse che dovevo mollare tutto per recitare quello che scrivevo. Fu lui l´anima della mia nascita, quello che ci credette e investì in me. In seguito sarebbe stato il mio regista, fino ad arrivare a Riccardo Rodolfi».
Però era una scommessa non così azzardata, la gente rideva quando c´eri tu. «Ridevano di traverso, senza capire, anche loro quasi posseduti e senza poter raccontare alla fine nulla di ciò che avevano visto. Anche le prime recensioni furono un po´ annaspanti, i critici sembravano cani da tartufo». Ma eri veloce, soprattutto, e di una velocità impressionante. «La dinamica è il senso di tutto. Io portavo i miei spettatori a spasso, e allo spasso nel simultaneo. Era nuovo, allora».
 interessante che a cadere più di altri nella tua rete siano gli estremi del pubblico, i semplici e i complessi, i bambini e gli intellettuali. Ricordo che Emilio Tadini era pazzo di te, anche perché il suo gusto pittorico era molto legato al lavoro delle avanguardie. « l´incondivisibile quello che mi è sempre venuto a prendere a casa per dirmi usciamo, non il condivisibile. Cosa teorizza oggi un attore? Che la gente deve riconoscersi nel suo spettacolo. Una bestemmia, per me. Il pubblico deve domandarsi: ma dove stiamo andando? Uno spiazzamento che non è sinonimo di qualità, ma di differenza. Ma sono davvero pressato dai mestieri». Troppi? «Una delle malattie del nostro tempo è quella del mestiere unico. L´industriale, il giudice, tutti dovrebbero cominciare a essere imputato, donna, paracarro, segretario. Io quando smetto di scrivere un libro o di fare uno spettacolo comincio altri mestieri: quello di malato, di albero, di madre, di motorino…».
L´evoluzione dei tuoi spettacoli: l´ultimo, Nel, impone momenti di commozione e segna un vero cambiamento. Del resto, tu sei sempre più magro, come se stessi sparendo per autocombustione. «Io li chiamo altri strati. Prima ce n´erano due, ridi e pensi. Ora c´è ridi, pensi, vai via, torni, scavi in alto. Stratosferico, una sfera tonda con tanti strati. Un effetto catastico, da catasta. Lo spettatore continua a ridere, ma deflagra. Da qui il mio motto: conosci tre stesso e non solo sul palco».
Ma anche l´ultimo dei tuoi tre sembra che soffra, quasi fosse ferito. «Le ferite c´erano anche prima, come prima c´era la pittura, anche se non dipingevo. C´era la sofferenza, ma non si vedeva. come la differenza fra culla e bara: la bara è una culla che non dondola. Questo è il contemporaneamentre: un tempo che tiene tutto, e che non puoi accettare se ti occupi di realtà. Pensa a uno spettacolo sulla Gelmini, fra dieci anni! O a uno su Spadolini, adesso. Non è la realtà, la mia fonte, ma l´energia. Quella che aumenta sempre, e va negli incontri letterari, negli incontri sulla malattia, negli incontri sull´arte».
E in questi incontri, l´attore dov´è? «Si sposta. Al Festival della filosofia di Modena ho fatto un´autopsia di me stesso per far vedere come nasce il pensiero, cosa ricevo dall´immaginazione, in tempo reale, mostrando come il pensiero diventa parola, aprendo le vene in pubblico. Lì sono un uomo più sociale, più civile e politico. Lì sono in ribellione. Da una decina d´anni in me la pace è finita, non mi accontento più. Non riesco più a leggere un giornale, vedere la tv, guardare un film passandoci sopra. Oggi capisco i danni della realtà sull´essere umano. E sono certo che c´è bisogno non di umanità, ma di sovrumanità».
Cos´è il sovrumano? «Un medico dice: faccio il possibile, e questo è umano. Il sovrumano significa: voglio andare a vedere l´impossibile, il mistero, lo sconosciuto. Queste sono le materie che possono far crescere un essere umano. Non mi interessa più l´attore, il cittadino, mi interessa l´essere nella sua complessità. Sono gli artisti che me l´hanno detto, i Bene, i Paladino, i Burri, i Kandinsky: cerca il sovrumano, l´essere superiore, non come razza o religione ma come anima. Non mi considero né laico né religioso, ma spirituale. Se fai arte, ti occupi di spirito. Dobbiamo smetterla di occuparci di umanità, anche la guerra è umana. Citare Dante va bene, ma dobbiamo anche scrivere come Dante».
E il rischio di mettere in movimento una quantità di imbecilli? « provocatorio, ciò che dico. Ma se non ci accontentassimo più dell´umano e cercassimo il sovrumano, ci sarebbe una selezione. Invece subiamo i reality come se fossero storia, ubriachi di cronaca cerchiamo mediazioni. Dovremmo accettare con l´accetta, invece, cercare la creazione e non la ricreazione, la parodia. Vogliamo rivalutare la differenza fra un creativo e un creatore, fra un pubblicitario e uno scrittore? Questo è fumo passivo. Perché devo ricevere il fumo passivo della tv, io che non la vivo, e dunque non fumo? La mia protesta è politica, in questo senso, perché dico che a noi manca un governo interiore. Dobbiamo ribellarci, con una violenza bell´e buona, non quella brutta e cattiva, che non mi è mai piaciuta. Creare Greenpeace culturali, andare fuori da certi studi televisivi e protestare. Bisogna intervenire subito, e fin dalla elementari, perché al liceo è tardi. Per esempio non puoi lasciare in mano solo ai giudici e agli scienziati o alla chiesa il testamento biologico. Intervenga altra trascendenza, altro pensiero. Non puoi parlare solo di norme ma anche di enorme. Prima di parlare del corpo devi parlare dell´essere, senza pregiudizi né dogmi. Io canto sempre nessun dogma, è la mia opera preferita. Non sono per una verità sola, ma chiedo che quando si parla di una persona in coma si cominci a pensare a qualcuno che sta vivendo altro tipo di vita: altro amore e altre soddisfazioni. Vogliamo parlare lo stesso della diversità? Dovremmo raccontare che ci sono persone che scelgono di vivere in un modo che a noi sembra invivibile».
Com´è nato questo bisogno di anima, dentro di te? «Sicuramente mi ha mosso anche la "Casa dei risvegli", otto anni fa. Poi mi sono interessato a letture come i testi di antroposofia di Rudolf Steiner. Ma ora tutto sta inserendosi in me in modo sinfonico: la deformazione fisica, la scrittura, il diverso, la pittura e il sociale lavorano contemporaneamentre in me e suonano con tutti i mestieri che dicevo prima. E adesso io la musica la sento. Che non vuol dire che faccia buona musica. Ma voglio un caos dove tutto sia possibile, e sia dato di credere all´incredibile. E senza paura, che è il male del nostro tempo. Cosa cerca il ragazzo nella pasticca? Cerca l´oltre, e tu glielo devi dare anche con l´arte, aprendolo all´infinito. Questo mi spinge, anche come attore. Il pubblico è provato, non ha più le papille gustative. Va ripalatizzato. Stimo la ricerca, ma dobbiamo rilanciare soprattutto la ricerca dell´incommensurabile. Io voglio usare le mine pro uomo per far saltare l´accettazione e l´assuefazione. Cacciamo gli spensierati, prepariamo una felicità composta, che sia un canederlo zeppo di altri ingredienti. Sono i mezzi di distrazione di massa la droga che serve a chi vende paura. E finiamola di confondere sogni con bisogni: i bisogni sono desiderio e necessità, il sogno è indicibile, inaudito, rivelazione. Chiedo molto. Non bastiamoci più. Il poco crea metastasi culturali, non è innocuo. Voglio avvenire, non essere avvenente, voglio far succedere, non voglio successo».